«Sono tornato da poco in Myanmar, è inverno, ma il clima è dolce come a maggio-giugno in Europa, molti segni raccontano che dal 1° febbraio, terzo anniversario del golpe, il consenso del regime militare sembra bassissimo». Importante testimonianza sul Post di un prezioso viaggiatore che deve restare anonimo per continuare a vivere, a vedere e a raccontare.
Avevo passato in Myanmar diversi mesi del 2020 mentre in Europa impazzava l’epidemia. Vivevo in un piccolo villaggio della zona bamar, la comunità maggioritaria, e in tanti mesi credevo di aver capito qualcosa di un paese complesso che, dopo decenni di dittature militari, stava rifiorendo sotto la guida di Aung San Suu Kyi. Nonostante la tragedia di quasi un milione di rohingya – comunità musulmana dello Stato del Rakhine – cacciati dal Paese, Aung San Suu Kyi aveva ridato una speranza a 50 milioni di persone e aveva stravinto di nuovo le elezioni nel novembre 2020, prima di essere deposta dai militari.
Il 1° febbraio 2021, rientrato in Italia, avevo visto in televisione il ritorno dei carri armati nelle strade e dei militari al potere, la repressione durissima e le rivolte pacifiche trasformarsi via via in resistenza armata. Si tratta di veri eserciti con armi pesanti, blindati e lanciarazzi: «le organizzazioni etniche armate», milizie regionali diffuse ovunque, soprattutto nella periferia del paese dove dal 1948 si combatte contro lo stato centrale, identificato proprio con i ‘bamar’, i birmani della fascia centrale, e il ‘Tatmadaw’, l’esercito golpista.
I voli per Yangon sono quasi deserti e un amico diplomatico mi avverte: «Non parlare con nessuno, gli aeroporti sono pieni di spioni che guardano chi va e chi viene da Bangkok». Da Bangkok perché la Thailandia, che è una democrazia semi-militare, è tra i pochi stati dell’area ad aver mantenuto buone relazioni con il Myanmar. La durezza della repressione militare, che secondo Acled, un centro studi americano, nel 2023 ha provocato almeno 30mila vittime, dà fastidio a tutti, agli stati dell’area e perfino alla Cina che di solito fa affari con chiunque.
All’aeroporto gli scaffali del Duty free sono mezzo vuoti e se azzardi, i commessi, sottovoce ti sconsigliano. Nel 2020 la birra più venduta era la Myanmar, prodotta da un’azienda birmana legata ai militari. La si beveva malvolentieri anche prima del golpe, ma restava la più diffusa. Nell’inverno 2023, sembrava sparita dai ristoranti e dai negozi. Il boicottaggio di cui avevo letto in Italia c’era davvero e stava funzionando.
Secondo un rapporto dei ricercatori SAC-M, già nel settembre 2022 la giunta aveva un controllo stabile solo su 72 dei 330 distretti del paese, il 17 per cento su per giù del territorio. Una percentuale che scendeva sotto il 10 per cento nelle aree periferiche. Pochi mesi dopo, nelle zone sotto controllo del Tatmadaw, l’esercito: «Non mandiamo più i figli a scuola perché gli insegnanti in sciopero sono stati sostituiti dai militari». E scopro che sono fiorite le scuole private, «a studiare soprattutto inglese». Per scappare.
L’occasione nella primavera del 2023 dopo mesi di contatti con il National Unity Government (Nug), il governo clandestino formatosi subito dopo il golpe e l’arresto di Suu Kyi. L’appuntamento ad Aizawl, capitale del Mizoram indiano, uno stato dell’India orientale abitato da popolazioni che si potrebbero definire ‘birmane’. Si chiamano Mizo, ma sono come i Chin birmani al di là del confine, che è poroso proprio per la fratellanza fra questi due popoli. Proprio tra i Chin si è creata una delle organizzazioni armate che combattono l’esercito birmano.
Con tre giornalisti italiani abbiamo condiviso due jeep e il rischio di passare illegalmente il confine, marcato da un fiume quasi in secca che lo rendeva attraversabile anche in macchina. Nell’unico posto di blocco indiano che abbiamo incontrato c’erano solo soldati distratti che, senza guardare, ci hanno fatto segno di passare. E nel paese profondo, abbiamo visto villaggi incendiati e bombardati da Tatmadaw, svuotati dalla gente che si era rifugiata nella giungla. Le bombe non avevano risparmiato nemmeno le chiese delle zone in cui la popolazione è in maggioranza cristiana.
Sono tornato in Myanmar pochi mesi fa, alla fine del 2023, e quella che l’anno scorso era considerata una zona franca strettamente controllata da Tatmadaw è diventata pericolosa anche di giorno. La strada che collega Yangon e Mandalay, oggi è a rischio. A Mandalay, la seconda città birmana, ci si arriva in aereo senza problemi, ma appena più a nord la guerra avanza. Al cambio della valuta, mezzo ufficiale e mezzo nero, altro segnale del collasso anche economico della giunta, il cui poco consenso è rosicchiato dal carovita che segue il deprezzamento della moneta. Ovunque per strada ci sono lunghe code alle pompe di benzina, che è aumentata come il riso, l’olio e i pomodori.
Nell’ottobre scorso, nel solo stato Shan, nel nord del Myanmar, tre eserciti etnici – la cosiddetta Brotherhood Alliance – hanno conquistato una quindicina di città, molte delle quali al confine con la Cina. Altre decine sono cadute nello stato del Rakhine, a ovest. Ma soprattutto sono crollate due città simbolo: Paletwa, strategica per raggiungere l’India, e ancora di più Laukkai, capitale del Kokang, nel nord dello Shan, dove migliaia di soldati del Tatmadaw si sono arresi. La reazione del capo della giunta, Min Aung Hlaing, è stata durissima: a gennaio ha graziato migliaia di prigionieri per celebrare il 76° anniversario dell’indipendenza dal Regno Unito, e ha condannato a morte quattro generali ritenuti responsabili della caduta del Kokang e rinchiuso in carcere, con condanne all’ergastolo, altri militari di grado inferiore accusati di tradimento.
Dopo il terzo anniversario, molti sono convinti che succederà qualcosa. Si parla di un ridimensionamento del generale Min Aung Hlaing, sostituito dal suo vice Soe Win, che prenderebbe il comando del Tatmadaw per rilanciare la guerra dopo aver preso tempo firmando un accordo con i ribelli per il cessate il fuoco. Ma sono speculazioni. Il cambio della guardia, però, è stato appena chiesto da un gruppo di monaci buddisti ultranazionalisti capeggiati da Pauk Ko Taw, che per parlare ha scelto Pyin Oo Lwin, un’ex stazione coloniale britannica oggi sede dell’accademia militare dove vengono addestrati gli alti gradi di Tatmadaw, che qualche settimana fa la resistenza ha umiliato conquistando un villaggio a soli 30 chilometri.
Quanto a me, l’ultima immagine che mi resta è quella di Wei, una ragazza birmana che gestisce un piccolo ristorante famigliare in cui sono andato a mangiare quasi tutti i giorni durante la mia ultima permanenza qui. Viene per salutarmi alla partenza dell’autobus, ma il dannato autista ha talmente fretta di partire che è passato dal mio alberghetto mezz’ora prima del dovuto. E così, mentre già sono salito sull’autobus, la vedo arrivare in motorino e fermarsi con un’espressione triste e interrogativa.
E io, dannazione, che son già dentro alla cabina, riesco solo a fare ciao con la mano. Mi resta dentro un senso di spaesamento e impotenza che mi pare la cifra del mio ritorno nel dramma di questo paese. (https://www.ilpost.it/2024/01/29/anonimo-myanmar-a-tre-anni-dal-golpe/)
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