
Diventa sempre più forte la competizione tra Usa e Cina per le sfere d’influenza nel Pacifico. Non si tratta solo di Taiwan. Joe Biden ha infatti organizzato a Washington un vertice proprio sull’Oceano Pacifico, volto a contrastare la crescente presenza cinese nell’area.
Questa volta ad essere coinvolti sono i tanti arcipelaghi del Pacifico meridionale, ora indipendenti e, in precedenza, colonie inglesi e francesi oppure protettorati americani. Il fatto è che, per lungo tempo, gli Usa non avevano prestato molta attenzione a quest’area strategica, piuttosto vicina all’Australia.
Erano infatti convinti che tali arcipelaghi fossero loro alleati naturali, senza preoccuparsi molto di seguire da vicino la situazione. Ne ha subito approfittato la Repubblica Popolare, inviando a ripetizione suoi rappresentanti nelle isole che un tempo venivano identificate con i “mari del Sud”.
Si tratta per lo più di paradisi turistici i quali, però, sono collocati in posizione strategica vicino all’Australia, tradizionale alleata degli Stati Uniti. Gli americani le conoscono bene poiché vi hanno combattuto importanti battaglie contro l’esercito e la flotta imperiale giapponesi nel corso della seconda guerra mondiale.
Ora stanno cercando di recuperare terreno dopo anni di sostanziale indifferenza, essendosi accorti che Pechino aveva nel frattempo guadagnato molte posizioni. L’impresa, tuttavia, si sta rivelando più difficile del previsto.
Le Isole Marshall, per esempio, non hanno dimenticato che, tra il 1946 e il 1958, gli Usa condussero ben 66 test nucleari nel loro territorio. Il più grande e famoso fu quello nell’atollo di Bikini (nome in codice “Castle Bravo”). Gli abitanti non furono evacuati e subirono le conseguenze delle radiazioni.
Adesso le Marshall rimproverano Washington di non aver affrontato con mezzi adeguati le conseguenze ambientali e sanitarie dei test atomici, e hanno deciso di sospendere i colloqui per rinnovare la partnership strategica con gli Stati Uniti.
Ancora più complicata la situazione con le Isole Salomone, dove i “marines” americani sconfissero i giapponesi nella celebre battaglia di Guadalcanal tra il 1942 e il 1943, battaglia che impresse una svolta al conflitto nel Pacifico.
In questo caso i cinesi si sono, per così dire, “portati avanti”, siglando con il governo locale un “patto di sicurezza” che ha destato molte preoccupazioni a Washington, Londra e Canberra. Gli alleati occidentali temono infatti che l’arcipelago diventi un avamposto della Repubblica Popolare nel Pacifico meridionale.
La strategia di Pechino è sempre la stessa: offrire consistenti aiuti economici e facilitazioni commerciali in cambio del controllo di “asset strategici” come porti e aeroporti. Anche se tutti ormai hanno capito che simili patti con la Cina fanno scattare “la trappola del debito”, poiché i Paesi che ricevono gli aiuti non riescono poi a restituire i soldi ricevuti.
Antony Blinken e John Kerry (l’inviato di Biden per i problemi ambientali) si stanno impegnando a fondo per contrastare Pechino e riguadagnare l’influenza perduta, ma la strada appare irta di ostacoli a causa dell’attivismo cinese. Non è detto, insomma, che il vertice convocato dal presidente Usa dia i frutti sperati.
Mette anche conto rammentare che Washington sta inviando nel Pacifico navi di ultima generazione dotate di missili ipersonici, schierate soprattutto vicino a Taiwan.
Come in Ucraina, anche in Asia Biden sta praticando una politica muscolare, forse per far capire alla dirigenza cinese di non temere lo scontro diretto. Ed è questa una strategia che nessuno, francamente, si aspettava dopo il disastroso ritiro dall’Afghanistan.