Per capire tutte le circostanze in cui maturò la Rivoluzione russa è necessario prima riassumere brevemente la situazione dei belligeranti non solo sul fronte orientale, ma anche su quanto stava accadendo in Francia e in misura minore anche in Italia. Le grandi offensive alleate e tedesche in Francia erano sostanzialmente fallite dissanguando tutti gli eserciti e portando allo stremo non solo i combattenti al fronte, ma imponendo duri sacrifici – se non in certi casi la fame vera e propria – alle popolazioni civili.
La Germania continuava però a spremere fino all’ultimo le proprie risorse ed altrettanto faceva l’Inghilterra, ma in Francia ad esempio – nonostante l’eroica resistenza a Verdun – si verificarono dei gravi ammutinamenti tra le truppe al fronte che fortunatamente non vennero a conoscenza dei tedeschi. Anche in Austria-Ungheria la situazione del ‘fronte interno’ si mostrava sempre più insostenibile e in questo quadro fu avviato all’insaputa dei tedeschi un tentativo di pace separata che fallì.
In Italia si verificarono i fatti di Torino, che pur se non furono una rivolta vera e propria, mostrarono in ogni caso l’insofferenza nei confronti della guerra per le tutte le restrizioni che imponeva.
A questa situazione difficile si aggiunga anche la diffusione dell’appello del papa Benedetto XV per la pace tra le nazioni e per fare cessare «l’inutile strage». La sensazione era insomma che si andasse verso un disastro generale, nonostante la propaganda in tutte le lingue incitasse all’immancabile vittoria.
La Russia era entrata nel conflitto mantenendo fede all’alleanza con Francia e Inghilterra, ma erano bastate le prime battaglie per dimostrare la superiorità tedesca. L’esercito russo era enorme dal punto di vista numerico, ma un colosso dai piedi d’argilla sul campo. Mentre in Francia si combatteva la battaglia della Marna nel settembre 1914, la Russia aveva già subito una pesante sconfitta nel vano tentativo di penetrare in Prussia orientale. Una sola armata tedesca ne aveva sconfitto due russe nella battaglia di Tannenberg, ma soprattutto da quel momento la Russia aveva perso l’iniziativa strategica, né la riprese più fino alla fine della guerra.
Nel primo mese di guerra si erano rivelate tutte le gravi debolezze russe: mancanza di rifornimenti ed equipaggiamenti, una sostanziale incapacità nei trasporti e soprattutto una classe militare inadeguata. Sebbene oggi possa sembrare una leggenda non esistevano nei depositi abbastanza fucili e non era infrequente che i soldati disarmati continuassero a combattere dopo aver raccolto le armi dai morti o dai feriti. L’altra grande questione che debilitava tutto l’apparato militare era la corruzione che allignava nell’amministrazione: quando il granduca Nicola (zio dello zar) era partito per il fronte, prima di tenere un rapporto allo stato maggiore, aveva invece radunato a parte gli ufficiali di commissariato e sussistenza raccomandando: «Signori, niente furti!»
Date queste premesse – e ricordando anche le grandi difficoltà negli altri paesi – è facile immaginare quale fosse la situazione militare dopo tre anni di guerra in un paese non industrializzato, disorganizzato e nelle mani di un’autocrazia priva di ogni contatto con la realtà.
Le potenze alleate guardavano con notevole preoccupazione la situazione russa: da una parte avevano impegnato l’impero a non uscire dalla guerra unilateralmente e dall’altra inviando rifornimenti che però spesso non venivano distribuiti. Se da un lato maturava la convinzione che lo zar Nicola dovesse essere allontanato dal potere, alcuni gruppi legati all’autocrazia avrebbero invece voluto sostituirsi al potere imperiale, mentre si rafforzava la volontà di trasformare la Russia se non in uno stato liberale, almeno verso un modello meno autocratico. L’altro elemento, che potremmo definire trasversale agli schieramenti politici, era la stanchezza della guerra e il desiderio di uscirne a qualunque costo, anche se i tedeschi si trovavano a due o tre giorni di marcia dalla capitale.
A Pietrogrado, tra il 23 e il 27 febbraio (l’8 e il 12 marzo, secondo il calendario gregoriano) fu proclamato lo sciopero generale e scoppiarono dei disordini: normalmente i cosacchi della guarnigione avrebbero disperso senza difficoltà i manifestanti, tanto più che erano presenti organizzazioni ‘illegali’, ma in quell’occasione non ci furono cariche o sciabolate, anzi soldati e cosacchi assistettero impassibili al pestaggio di numerosi poliziotti. Il culmine fu un cosacco portato in trionfo dalla folla per aver colpito a sciabolate un commissario di polizia che aveva dato l’ordine di sparare. Un agente dei servizi, infiltrato tra l’altro in un’organizzazione rivoluzionaria clandestina, scrisse lucidamente nel rapporto alla fine dei disordini che, in assenza di una reazione del governo, «il popolo è convinto che sia scoppiata la rivoluzione». E non si era ancora arrivati ad ottobre …
Portare la Russia fuori dal conflitto era invece necessario alla Germania che, chiudendo il fronte orientale, avrebbe potuto riversare ad occidente tutto il suo potenziale bellico per risolvere definitivamente la partita con Francia e Inghilterra. Per far implodere la Russia sarebbe bastato dunque accelerare la rivoluzione che avrebbe provocato il caos e l’uscita dalla guerra. La proposta venne suggerita allo stato maggiore dal ministero degli esteri, soppesata e infine approvata: si trattava di trasferire dalla Svizzera in Russia un esule politico che si chiamava Vladimir Ulianov, meglio conosciuto come Lenin, capo del partito bolscevico che nel programma rivoluzionario aveva al primo punto la pace.
La parte esecutiva fu affidata a Walter Nicolai, capo dell’Abteilung III b (reparto III b) dello stato maggiore tedesco, ovvero lo spionaggio. Nelle sue memorie Nicolai, che aveva avuto a che fare con spie come Mata Hari o Fräulein Doktor e controllato censura, stampa e informazioni in Germania, scrisse semplicemente che trasferire il ‘sovversivo’ Ulianov era stata un’operazione come tante altre.
A parte la rivoluzione, della quale alla Germania probabilmente non importava molto, l’operazione raccolse i suoi frutti nel 1918 alla pace di Brest Litovsk: nonostante le forti perplessità del grippo dirigente bolscevico, Lenin impose la pace a qualunque costo, anche di fronte ad umilianti cessioni territoriali e all’onta della sconfitta.
Si comprende bene come nella mente di molti nazionalisti russi il 1917 sia stato un anno orribile: la vulgata corrente è quella del tradimento dell’esercito avvenuta alle sue spalle, ma abbiamo visto quali invece fossero le reali condizioni e quale sia stato il ruolo di Lenin nel finire una guerra già persa. Non bisogna nemmeno dimenticare che nel 1918 anche i tedeschi attribuirono la sconfitta al nemico interno e come da questo tema sia nata parte della mitologia nazista della Germania tradita. A ripristinare la potenza russa ormai diventa sovietica, sempre nella visione nazionalista russa, fu invece Stalin dopo il 1945 e questo ci riporta agli anni della guerra fredda e del Patto di Varsavia.
L’altra questione riguarda un nesso tra sconfitte militari e sconvolgimenti interni che è apparso più volte nella storia russa: dopo la guerra di Crimea cominciarono delle pallide riforme che avrebbero condotto all’abolizione della servitù della gleba, ma che sostanzialmente fallirono ritardando l’ingresso della modernità in Russia; dopo la sconfitta nella guerra russo-giapponese nel 1905, scoppiò una rivoluzione che fallì e dopo il ritiro dall’Afghanistan si accelerò la crisi del regime sovietico.