Il furbettame si è fatto Stato

A un certo punto del nostro declino culturale, sociale e politico, sono apparsi i furbetti del quartierino. Vestiti come i faccendieri degli anni Ottanta, erano ambiziosi banchieri, immobiliaristi rampanti, affaristi che avevano lo scopo di trasformare il mattone in oro. Oggi fanno parte della preistoria del Paese pessimo che nel Terzo millennio non si è fatto mancare niente, ma quindici anni fa rappresentavano l’Italia che non deve chiedere mai, il manipolo di potentucoli affiliati alla politica in grado di non aver altro limite se non quello segnato dalla loro azione.

Non so perché proprio oggi mi tornano in mente questi frammenti di un passato opaco. Forse perché anche in questa fase storica di furbetti ne abbiamo a bizzeffe. Di personaggetti che si cullano sulla propria onnipotenza, ritenendola figlia di merito e non di quello stesso meccanismo di potere mediocre, invisibile e invincibile. Alcuni non hanno meriti ma neanche colpe: sono nati nelle famiglie giuste, hanno poggiato le terga nei salottini di classe, hanno ereditato posizioni senza neanche porsi un dubbio. Hanno un’arroganza implicita. Altri hanno saputo obbedire senza darlo a vedere; hanno scalato le gerarchie sapendo quando attaccare alzo zero con le spalle coperte e nel nome di qualcuno, e quando sfilarsi nell’ombra, nelle serate noiose di sfrenata allegria elegante, frequentando i divani più indicati. Sono tutti loro, i grandissimi del giornalismo, della politica celata nelle pieghe degli affari, dell’adulazione al potente di turno che genialmente paga, realizza, pretende, fa la storia. E se proprio non ci riesce, cerca di modificare la geografia.

Un furbettame che si è fatto Stato. Un gioco delle parti che ha sostituito la politica, rendendola uno spiacevole incidente di percorso, un tamponare falle continue sul piano ambientale, sociale, di uguaglianza e diritti. Un rincorrere decisioni che non sembrano utili ai territori, alle comunità che li abitano, agli esseri umani che vivono una vita semplice fatta di gioie, dolori, speranze, figli che crescono, alberi che fanno ombra, prati dove crescono papaveri, lavori con le mani, ceramiche dipinte, sorrisi, danze senza telefonini in mano, di libertà contro il tramonto, per il semplice fatto di farlo, non di celebrarlo sui social. Insomma la vita, quella cosa meravigliosa che sembra così distante dalla narrazione mediatica e nel contempo estranea rispetto agli interessi del furbettame.

Ed è questo il punto. La democrazia si è arenata sul concetto di delega incondizionata a un gioco a incastro di interessi che niente hanno a che fare le nostre vite, se non incidentalmente, se non fosse il fatto che noi subiamo le conseguenze di questa spettacolarizzazione della dialettica politica. Un qualcosa che somiglia al mercato dei calciatori, alla rappresentazione sempre più personalistica degli interessi in gioco. Le idee, le ideologie, il senso delle cose, il campo politico nel quale si affrontano interessi sociali diversi, sono spariti in un frullatore virtuale.

Beh, che dire, siamo stremati e anche stavolta voteremo il meno peggio. Voteremo chi prova ancora a pensare che esistano diritti sociali e civili, o per lo meno per chi ci prova e nonostante tutto, le cadute e gli errori, rappresenta una comunità di esseri umani che cercano risposte e giustizia sociale. Una comunità migliore di qualunque rappresentanza, che avrebbe diritto ad averne una, civile, culturale e politica. E nello stesso tempo ha il dovere di battersi per averla. Ognuno di noi dovrebbe battersi contro il furbettame, sapendo che i diritti non si concedono. Si conquistano con la lotta. Giorno dopo giorno, non nell’arena mediatica delle posizioni precotte, nella vita. In quella vera, nei territori, per le strade del nostro abitare, difendendo la democrazia,

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