Una bomba a orologeria che ha ticchettato per otto anni sulle splendide, vitali e frequentatissime acque del Mar Rosso. È la nave-cisterna yemenita Safer, un gigante lungo 362 metri di fabbricazione giapponese, con sulle spalle quasi 40 anni di indefesso lavoro e nella stiva oltre un milione di barili di petrolio.
«Otto anni dopo la ‘tempesta decisiva’ imperversa ancora –ironizza Chiara Cruciati estremamente critica sul manifesto- la guerra non è mai terminata, seppure da mesi abbia affievolito significativamente la sua portata distruttiva. Non piovono bombe come negli anni peggiori, ma le condizioni di vita del popolo yemenita non sono migliorate per niente. E la nave-cisterna appare quasi il suo specchio, metafora di un conflitto dimenticato su cui – però – potrebbe incidere una comunità internazionale finora silente». Insomma, dal ‘salvare il Maro Rosso‘, al ‘salviamo lo Yemen‘ ponendo fine ad una un macello feroce ed assurdo.
La storia recente della Safer era cominciata nel 2015. Era ancorata al terminale petrolifero di Ras Isa, tra i più importanti porti commerciali del paese, di cui il movimento Ansar Allah (espressione politica della minoranza sciita Houthi) aveva assunto il controllo dopo la presa della capitale Sana’a, nel settembre 2014. I primi mesi di guerra avevano di fatto interrotto il lavoro della Safer, «il suo essere contenitore al petrolio estratto a Marib». Abbandonata a se stessa: nessuna cura, nessuna manutenzione. Nel novembre 2020 gli Houthi hanno autorizzato l’Onu a ispezionare la nave, ma la missione era stata rinviata a data da destinarsi. Fino al marzo 2022 quando le Nazioni unite hanno raggiunto un nuovo accordo con Ansar Allah. La raccolta fondi per le operazioni di travaso e salvataggio hanno raggiunto l’obiettivo a settembre dello scorso anno. Ora il lieto fine, almeno per il Mar Rosso.
Per definire le dimensioni della potenziale devastazione, nell’ottobre 2021 la rivista Nature ha pubblicato lo studio di un gruppo di esperti che hanno simulato la dispersione del contenuto della Safer, abbandonata agli agenti atmosferici e al mare, senza alcuna manutenzione. Se il disastro fosse avvenuto d’estate, l’immensa macchia d’olio si sarebbe allargata verso sud-est, lungo le coste yemenite, per poi farsi strada verso ovest, lungo le coste eritree. Senza interventi umani, il petrolio in tre settimane avrebbe raggiunto il Golfo di Aden. E se entro 24 ore dall’incidente – continua Nature – la metà del petrolio sarebbe evaporata, le sue componenti più pesanti sarebbero rimaste in acqua, un’acqua che ospita migliaia di specie di pesci, barriere coralline, un habitat unico al mondo e l’alga Trichodesmium erythraeum, quella le cui velature sprigionano macchie rossastre e un nome, Mar Rosso.
Un disastro, soprattutto tenendo conto di quante persone lungo quelle coste ci vivono: «La dispersione – si leggeva su Nature – potrebbe impedire la fornitura di acqua potabile per 9-9,9 milioni di persone, di cibo per 5,7-8,4 milioni e (danni) per il 93-100% dei pescatori. Stimiamo anche un crescente rischio di ricoveri ospedalieri per malattie cardiovascolari dovute all’inquinamento tra il 5,8% e il 42%». Non solo: il petrolio, spostandosi verso est, avrebbe paralizzato i porti yemeniti di Hodeidah e Salif, quelli che da anni Nazioni unite e organizzazioni umanitarie utilizzano – a seconda di quanto i sauditi decidano di aprire o chiudere il blocco navale e aereo imposto sullo Yemen – per far arrivare nel paese cibo e medicine, fondamentali alla sopravvivenza di una popolazione di 24 milioni di persone che per l’80% vive di aiuti. Altri due milioni vivono di pesca, settore che sarebbe stato cancellato per sempre da un simile disastro.
Per impedire che quella bomba a orologeria scoppiasse e provocasse – lo dice l’Onu – «un disastro ambientale quattro volte peggiore di quello che nel 1989 devastò l’Alaska» (la dispersione in mare di 40 milioni di litri di petrolio, circa 275mila barili, dalla petroliera Exxon Valdez), la comunità internazionale si è mossa e ha raccolto 120 milioni di dollari. L’Onu -racconta sempre il Manifesto-, ha pubblicato un video di un minuto e mezzo, in cui mostra i lavori, durati 18 giorni, per svuotare la pancia della nave-cisterna e muovere il carico da 1,14 milioni di barili di petrolio su un’altra imbarcazione yemenita, la Most, solo dopo l’individuazione di mine sottomarine. Sulla Safer non resta, ora, che un 2% del contenuto originario, sedimentato sul fondo della cisterna: sarà ripulito in seguito. Per la pulizia e la rimozione della Safer, però, servono altri 22 milioni di dollari che l’Onu insiste a chiedere ai donatori internazionali, governi e privati.
«Il miglior lieto fine è che il petrolio sarà ora venduto». Ma da chi non è ancora chiaro. Nessun accordo sulle modalità della ‘transazione’. Perché in Yemen la pace non è mai arrivata e non sono pochi gli attori interessati a incassare i proventi di un milione di barili di petrolio: gli Houthi, autorità de facto nel nord e nel centro del paese, e il governo ufficiale in auto-esilio ad Aden, che da un anno non ha nemmeno più un presidente ma un ‘consiglio presidenziale’, composto dalla galassia di forze attive a sud, da esponenti delle tribù ai gruppi separatisti fino ai parenti dell’ex dittatore Saleh rimosso nel 2011 dalla ‘primavera yemenita’.