Camp David, il ‘buen retiro’ dei Presidenti americani dai tempi di Roosevelt, un vertice di grande importanza politica sul fronte asiatico. Al centro dei colloqui, le strategie per contenere quella che Washington definisce ‘l’aggressività di Pechino’. Jake Sullivan, il Consigliere per la Sicurezza nazionale Usa e Antony Blinken, il Segretario di Stato, hanno dovuto lavorare molto per smussare tutti gli spigoli diplomatici che ostacolavano questa trilaterale. Giappone e Corea del Sud, per motivi storici, non avevano di fatto rapporti. E anche adesso, davanti alla minaccia nucleare di Pyongyang e alla crescente invadenza cinese, permangono differenze sugli atteggiamenti da assumere. Ma gli Stati Uniti tengono stabilmente, nella Penisola coreana e in Giappone, almeno 80 mils uomini dell’US Army, oltre ad avere le basi più importanti della 7ª flotta del Pacifico.
Se a questo aggiungiamo anche le risorse spese per fare risorgere questi due Paesi, ecco che nessuno si sognerebbe di fare un grande sgarbo a Joe Biden. Anche se pochi pensano a una Cina che va all’assalto militarmente (forse manco di Taiwan).
Ma tutti sono convinti che Pechino voglia concorrere per la leadership mondiale dell’economia, con gli Stati Uniti. Battendoli. Naturalmente, questo non può essere scritto nei trattati, dove invece si calca la mano sull’aspetto positivo dello status quo. «Perché – come dicono alla Casa Bianca – i Paesi dell’Indo-Pacifico hanno prosperato nell’ultimo mezzo secolo e non vogliono vedere il mondo capovolto». Tradotto, significa: la Cina stia al suo posto e rispetti le priorità acquisite dalla storia. E cioè, che gli Stati Uniti sono la prima potenza economica del pianeta. Tuttavia, per essere più precisi, a puntualizzare il reale motivo ispiratore dell’incontro, ci ha pensato Kurt Campbell, il capo del team di adviser di Biden per l’Indo-Pacifico. Così, nel decrittare le parole dell’alto funzionario diplomatico, si scoprono subito gli altarini.
Secondo la Casa Bianca (almeno ufficialmente), gli Usa stanno solo rispondendo alle sollecitazioni che arrivano dai Paesi della regione, che avvertirebbero una pressione crescente da parte della Cina. «Si sentono, per molti versi, sotto una pressione inimmaginabile – ha dichiarato Campbell, parlando alla Brookings Institution – che tocca aspetti economici, diplomatici e militari». Si tratta, evidentemente, di una preoccupazione che nasce prima di tutto nella sfera commerciale.
Un’interpretazione che poi viene estesa, a cascata, a tutti gli aspetti delle relazioni con Pechino, giustificando ogni possibile contenzioso, attraverso l’insindacabile motivazione della ‘sicurezza nazionale’. E l’obiettivo conclamato dell’operazione diplomatica, che la Cina ha già definito «formazione di una nuova Nato asiatica», punta, sulla carta, a un patto di cooperazione militare. Ma il ‘draft’, la bozza dell’accordo che verrà siglato, è molto più vago e apre ad interpretazioni ‘estensive’.
Da subito, monitorare e tenere sotto controllo lo sviluppo dei missili balistici nucleari nordcoreani. Ma largo spazio dedicato alla crescente presenza militare cinese, soprattutto attraverso unità navali, sempre più numerose e di moderna costruzione. Nel documento viene citata anche l’esigenza di «diversificare le catene di approvvigionamento produttivo e di alzare la vigilanza nel settore dell’informatica». Richiami che ci riportano, inevitabilmente, alle guerre commerciali tra l’Occidente e la Cina e al tentativo di Washington di bloccare l’accesso di Pechino alle tecnologie di fascia alta. Quelle, per intenderci, che non hanno solo usi militari, ma vengono impiegate efficacemente per aumentare la produttività dell’industria ‘4.0’.
A Washington, sono consapevoli che il processo di allineamento strategico tra Tokyo e Seul potrebbe non durare a lungo. Entrambi i Paesi hanno governi conservatori e un cambio di linea è sempre dietro l’angolo. La bontà dei rapporti bilaterali con gli Stati Uniti, non significa che una possibile alleanza a tre funzioni. In fondo, Giappone e Corea del Sud hanno filosofie mercantili simili, ma interessi diversi. Diplomatici americani hanno detto che «Washington vuole mantenere la resilienza sulle catene di approvvigionamento produttivo, specie sulla scia della pandemia globale. Per questo vuole aiutare gli alleati a evitare di dipendere eccessivamente da un singolo Paese, per beni e materiali critici».
Biden, fino all’ultimo, ha perorato la causa della Nato Trilaterale Asiatica. E ha fatto sapere ai suoi ospiti di non fare le bizze perché, nel 2025, alla Casa Bianca, «potrebbe esserci qualcuno meno impegnato di me nelle alleanze globali.
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