«La guerra Israele-Ḥamās esula dalle norme internazionali. Così la Carta delle Nazioni Unite perde significato. Noi e i nostri governi dovremmo allarmarci per quanto sta accadendo in Palestina», avverte Widad Tamimi* su Limes. «Nascere metà ebrea e metà palestinese ha un sicuro vantaggio: insegna a una bambina che la pace non è un’utopia e che ogni matrimonio, seppur complicato, può essere salvato».
Il conflitto israelo-palestinese offre un esempio infelice quanto calzante della debolezza congenita delle norme internazionali, la premessa. «Le dinamiche tra Hamas e Israele, in particolare, cercano spazi alternativi alla norma e poggiano su narrazioni che manipolano realtà drammatiche. Entrambe le parti sfruttano la sofferenza della gente a sostegno della propria causa».
Il movimento armato palestinese mira a costituire uno Stato islamico. Nonostante i palestinesi professino più di un credo, con tutt’al più in comune l’unicità del Dio in cui credono e il nome con cui lo chiamano – dato che la parola Allah altro non è che la traduzione di Dio in arabo. Ma la gestione della loro società – con l’eccezione di Hamas, che secondo gli ultimi sondaggi arrancava al 30% dei consensi – è sempre stata notoriamente laica.
Israele, invece, propone due criteri diametralmente opposti ma volti allo stesso risultato: chiede al mondo di dimenticare i 75 anni di occupazione, inclusi i soprusi commessi ai danni dei palestinesi, e cerca di stabilire un nesso tra il barbarico attacco del 7 ottobre e la Shoah. In entrambi i casi ci obbliga a una colpevole mistificazione della storia pur di zittire le critiche che il mondo rivolge a Gerusalemme. E lo fa interrompendo una tradizione del tutto ebraica – scavare nel passato, tornare alle radici e ripercorrere la storia al contrario per capire i giorni che viviamo – e ripescando nell’antisemitismo dell’Europa di inizio Novecento.
La gravità degli attacchi del 7 ottobre piombata su un vuoto apparente. Ciò che il segretario generale delle Nazioni Unite António Guterres cercava di dirci era più articolato, ovvero che contestualizzare gli eventi serve a comprenderne la genesi, afferrarne la complessità e formulare i passi da compiere per invertire le tendenze nocive o consolidare quelle positive. Tale esercizio non toglie né aggiunge giustificazioni ai massacri.
La distorsione degli eventi di oggi riletti attraverso riferimenti al passato, manipolandoli facendo leva sull’emotività, invece che aderire alla complessità insita nella storia contemporanea, dovrebbe allarmarci. L’accusa di antisemitismo, oltre che avanzare un imprudente ‘Al lupo! Al lupo!’ come nella storia di Pierino, rischia di trasformarsi nella negazione del diritto di parola, se posto a prescindere dalle ragioni sulla bocca di tutti quelli che contestano il comportamento di Gerusalemme.
Israele è uno Stato sovrano, con delle Forze armate tra le più tecnologiche e preparate al mondo, ed è una potenza nucleare, per giunta sostenuta da una superpotenza come gli Stati Uniti. Dani Dayan, presidente del monumento mondiale alla memoria della Shoah Yad Vashem si è detto rattristato nel vedere i membri della delegazione israeliana alle Nazioni Unite indossare la stella gialla. Dal suo punto di vista, ciò sarebbe un disonore per le vittime dell’Olocausto e di Israele: «La stella gialla simboleggia l’impotenza del popolo ebraico e il fatto che gli ebrei siano alla mercé degli altri. Oggi abbiamo uno Stato indipendente e un esercito forte. Siamo noi i padroni del nostro destino. Oggi dobbiamo indossare una bandiera bianco-blu, non una stella gialla».
Essere padroni del proprio destino non è cosa da poco. Ciò conferisce il diritto e il dovere a uno Stato sovrano e democratico di pensare in modo chiaro e critico a quale tipo di guerra fare, se moralmente legittima e accettabile, se volta a rafforzare o invece indebolire i valori che da 75 anni difendono la sua esistenza e che sono stati enunciati affinché orrori come quelli che macchiarono l’Europa di una vergogna indimenticabile non si ripetano su alcun altro essere umano.
I nostri governi avrebbero il dovere di indignarsi per ciò che sta accadendo. La barbarie di un gruppo terroristico non può e non deve poter giustificare l’imbarbarimento dell’intera comunità internazionale.
Il rischio di risvegliare l’antisemitismo nel mondo con la condotta disumana tenuta a Gaza e di vanificare il processo di normalizzazione e integrazione in un’area in cui lo Stato ebraico deve convivere con paesi storicamente ostili è infinitamente più grande della possibilità che Israele fosse preda di una pulizia etnica per mano di un gruppo terroristico.
Non solo, ancora una volta si alimenta l’estremismo a scapito dei valori dei moderati proprio come accadde nella guerra di Bush, che contrapponeva i valori dell’Occidente a quelli dell’Islam. Si insiste sullo scontro invece che trasformare le fatiche in occasioni per affermare i valori che tutti condividiamo indipendentemente dalle identità etniche e religiose.
La dimensione di questo conflitto è destinata a crescere, lo sta già facendo. E non è necessario che si espanda sulla carta geografica o che coinvolga gli eserciti regolari. Ciò che dovrebbe spaventare i governi di oggi non sono necessariamente le guerre condotte dagli Stati sovrani. Ci si dovrebbe preoccupare della frustrazione della gente moderata che, abbandonata e, alla lunga, umiliata dal colpevole silenzio dei rappresentanti in carica, diventa più facilmente manovrabile da forze fanatiche. Piuttosto che sottrarre ossigeno e fare terra bruciata attorno agli estremisti, ciò che Israele fa in Palestina, e ciò che l’Occidente fa nel mondo, offre al fanatismo l’occasione di propagarsi.
*Widad Tamimi, (Milano, 1981), figlia di un profugo palestinese fuggito dall’occupazione israeliana del 1967 e di una donna di origini ebree, la cui famiglia scappò a New York durante la Seconda guerra mondiale, è cresciuta in Italia. Attualmente vive a Lubiana col marito e i due figli e presta servizio nei campi di accoglienza ai profughi nel programma ‘Restoring Family Link’ della Croce Rossa Slovena. Nel 2012, ha pubblicato il suo primo romanzo ‘Il caffè delle donne’. Scrive racconti per ‘Delo’, il principale quotidiano sloveno.