Deripaska è uno degli uomini più ricchi del suo Paese ed è il fondatore di Rusal, il primo produttore nazionale di alluminio. «Tutti si aspettavano la bancarotta del Cremlino dopo la reazione di americani ed europei – ha dichiarato l’oligarca – ma l’economia russa è stata sorprendentemente resiliente». Ma come ha fatto, quello che in Occidente veniva descritto essere «il carrozzone di Putin», a restare in carreggiata, pur mezzo sbalestrato dalle ripetute sanzioni che l’hanno colpito a 360 gradi? Beh, ecco come la pensa FT interpretando le parole di Deripaska: «La Russia ha resistito alle sanzioni sull’invasione dell’Ucraina e al tentativo di isolare la sua economia, principalmente in due modi. Ha sviluppato nuovi legami commerciali con il Sud del mondo e ha aumentato gli investimenti nella produzione interna». La chiave è stata quella che non ti aspetti, ovverossia la ‘flessibilità’, una virtù sorprendente in un sistema ancora largamente dirigistico.
Eppure, spesso l’istinto di sopravvivenza, in questo caso economico, fa miracoli e riesce a colmare dei gap in modo insospettabile. O, almeno, inatteso per gran parte dell’Occidente, che sperava in un crollo che non c’è stato. Anche Deripaska, per la verità, si dice piacevolmente stupito che le previsioni, che davano un calo fino al 30% del Pil, siano state smentite dai fatti. Lo stesso Putin, la settimana scorsa, ricorda il Financial Times, ha dichiarato, fin troppo sicuro di sé, «che la fase di sofferenza per l’economia russa è terminata, dopo aver eliminato pressioni esterne senza precedenti». Insomma, secondo il leader del Cremlino, i danni collaterali delle sanzioni sono stati assorbiti dal sistema e ora si riparte. Addirittura, Vladimir Vladimirovic si è spinto fino a ipotizzare una crescita del Prodotto interno lordo del 2,8% nel 2023. Abbondantemente sopra l’1,5% previsto dal Fondo monetario internazionale. In teoria, Mosca dovrebbe essere tagliata fuori dai mercati globali e dalle catene di approvvigionamento. In teoria. Ma nella pratica, grazie a un collaudato sistema di triangolazioni, giochi commerciali di sponda e vere e proprie elusioni doganali, riesce a esportare e a importare di tutto.
Significativa è la prometeica trasformazione del business legato al greggio ‘Urals’. L’accordo sui tagli alla produzione, raggiunto con l’Arabia Saudita, sta influenzando significativamente il mercato internazionale del petrolio, il cui prezzo torna a riavvicinarsi pericolosamente ai 100 dollari al barile. Mosca ha aggirato le sanzioni occidentali sul ‘price-cap’ del suo greggio, il tetto massimo del prezzo, a 60 dollari al barile, semplicemente aumentando a dismisura l’export di GNL via nave. Se Stati Uniti ed Europa, in definitiva, con le sanzioni cercavano una ‘Wunderwaffe’, come la chiama Deripaska mutuando il termine tedesco per ‘arma miracolosa’, non l’hanno trovata. «Ho sempre dubitato – sostiene l’oligarca – di chi pensa di utilizzare il sistema finanziario con una specie di strumento per negoziare». E aggiunge che il processo di globalizzazione è irreversibile e bloccarlo genera degli anticorpi, che lo aggirano. Una riflessione che può valere anche per il cosiddetto ‘disaccoppiamento’ dalla Cina.
Paradossalmente, la guerra con l’Ucraina ha imposto modelli e ritmi produttivi più efficienti anche alla grande industria di Stato. L’emergenza ha convogliato enormi capitali in questi settori, facendo alzare i salari, ma richiedendo anche maggiori competenze. Che poi si ripercuotono, positivamente, sul prodotto finale. È questa la visione di Deripaska, il quale, per quanto riguarda i rapporti con i Paesi in via di sviluppo, non ha dubbi: «Hanno bisogno di sfamare un miliardo di persone ogni giorno, e si chiede loro di impegnarsi o di soffrire. È stato pero un grave errore, fatto da coloro che pensavano di utilizzare questo eccellente meccanismo per esercitare pressioni sui regimi autocratici». Il Terzo mondo, insomma, applica una scala delle priorità geopolitiche abbastanza comprensibile (e condivisibile), nella quale l’esigenza di puntare sulla propria crescita, viene prima di tutto il resto. Una cosa che a Washington e a Bruxelles spesso dimenticano.
Al solito, i numeri inchiodano tutti davanti alle proprie responsabilità e tappano le bocche di intera legioni di strateghi, che allignano nelle Cancellerie, negli atenei e nelle redazioni dell’intero Occidente. Nei primi 8 mesi del 2023, l’interscambio russo con la Cina è aumentato del 32% e ha raggiunto i 155 miliardi di dollari. Mentre il commercio con l’India si è triplicato, in sei mesi, toccando i 33 miliardi di dollari. «Del prossimo miliardo di persone che sta per nascere – ha aggiunto l’oligarca – circa il 70% arriverà nei Paesi in via di sviluppo. Che hanno bisogno delle risorse russe, dall’energia, ai metalli, ai cereali. Credere che le sanzioni fermeranno la guerra, favoriranno un cambiamento di regime o in qualche modo ci avvicineranno alla fine del conflitto è irrealistico. No, abbiamo bisogno di un’altra soluzione».
Oleg Deripaska, scrive il Financial Times, è stato uno dei pochi oligarchi ad avere espresso critiche all’invasione russa, sia pure con una certa cautela, nei suoi primi mesi.