
La premier uscente Jacinda Arder, a luglio 2022 in un discorso al Lowy Institute di Sydney in cui ha piantato i paletti della diplomazia nazionale. Tre pilastri apparentemente semplici: i valori democratici; cooperazione con paesi non necessariamente affini se serve a disinnescare conflitti e ad affrontare problematiche comuni; la geografia. «Nessun paese può sfuggire alle costrizioni e alle peculiarità del suo intorno geografico, tra cui ovviamente i propri vicini». Ovvietà? Mica tanto visto che la geografia dell’Indo-Pacifico comprende la presenza della Cina. E il messaggio agli Stati Uniti e agli altri membri del Quad, la Nato di quel sud del pianeta, è chiaro: «la Nuova Zelanda si chiama fuori dal muro contro muro con Pechino».
«In pochi anni abbiamo visto l’ambiente in cui conduciamo la nostra politica estera farsi sempre più ostico. L’Europa fronteggia l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia e il completo sovvertimento nella propria regione dell’ordine internazionale fondato sul diritto. Ma soprattutto, il senso di pace e stabilità di cui gli europei hanno complessivamente goduto dalla fine della seconda guerra mondiale è messo in discussione».
«Nella nostra regione osserviamo un aumento della conflittualità, che si aggiunge al più ampio impatto della pandemia, alla crisi economica che ne è scaturita, alle potenti forze che stanno logorando la coesione sociale e la fiducia delle persone nelle istituzioni al loro servizio».
Se tutto questo non bastasse, dobbiamo ancora trovare risposte efficaci a una delle più gravi e pressanti sfide alla nostra sicurezza regionale: il cambiamento climatico. Insomma: la situazione è seria.
«C’è una ragione se dopo la seconda guerra mondiale, in cui la Nuova Zelanda – al pari dell’Australia – aveva subìto enormi perdite, eravamo presenti a San Francisco per l’istituzione delle Nazioni Unite. Volevamo ordine e bilanciamento tanto quanto avere voce in capitolo. Di fronte ai conflitti e alle sfide globali di oggi, continuiamo a sostenere un ordine basato sulle regole e perseguito mediante istituzioni multilaterali. E quando cerchiamo soluzioni ai problemi, si tratti di guerra o di altre dispute, ci rivolgiamo a quelle istituzioni perché agiscano da mediatori o, se necessario, da arbitri».
Posso fare molti esempi recenti in tal senso: le nostre preoccupazioni per le azioni della Cina nel Mar Cinese Meridionale, a Hong Kong e nel Xinjiang; la nostra condanna del colpo di Stato in Myanmar; la minaccia alla pace e alla stabilità regionali posta dai ripetuti test missilistici nordcoreani in palese violazione delle risoluzioni del Consiglio di Sicurezza dell’Onu. E in molti casi la Nuova Zelanda non era sola.
Ma le istituzioni multilaterali sono imperfette. Hanno fallito in passato e falliranno in futuro. Quando accade, la nostra prima preoccupazione dev’essere rafforzarle».
«Quando il sistema fallisce, cerchiamo dunque partner e approcci in ossequio al secondo principio di politica estera indipendente: i nostri valori. La convinzione di avere una responsabilità morale nel fare la nostra parte per mantenere l’ordine internazionale basato sul diritto. Ciò indipendentemente dalla possibilità di adottare un approccio collettivo: difendere i valori fondamentali dei diritti umani, dell’eguaglianza di genere, della sovranità statale e dell’azione sul clima è responsabilità che ricade su ognuno di noi. Siamo sempre più interdipendenti gli uni dagli altri e siamo, come siamo sempre stati, investiti dalle conseguenze delle scelte altrui».
«La nostra geografia è quella dell’Oceano Pacifico. Il Pacifico è ciò che siamo e dove siamo, è la nostra identità e il nostro posto nel mondo. Siamo una nazione il cui documento fondativo tra popolazione indigena e Corona è noto come trattato di Waitangi, le nostre nazionalità indigene hanno un passato condiviso di viaggi. La nostra gente discende dai maori che solcavano il Pacifico sulle canoe waka e questi documenti, queste connessioni, questa storia continuano a plasmarci come nazione».
«Se si guarda una mappa con la Nuova Zelanda al centro invece che al margine, salta agli occhi come le nostre isole siano unite dagli oceani Pacifico e Antartico e dal Mar di Tasmania. Una regione con una storia, una cultura e istituzioni proprie; ragion per cui quando siamo andati al governo abbiamo lanciato il Pacific Reset. Per noi l’architettura regionale del Pacifico è cruciale: la Nuova Zelanda vede nel Forum delle isole del Pacifico l’ambito in cui affrontare le sfide regionali».
«Ciò non esclude che altri possano avere interessi nel Pacifico. Francia, Giappone, Regno Unito, Stati Uniti e Cina hanno tutti svolto un ruolo nella regione per molti, molti anni. Sarebbe fuorviante dipingere questo coinvolgimento, incluso quello cinese, come nuovo. Sarebbe altresì sbagliato, tuttavia, obbligare le nazioni del Pacifico a «schierarsi»: stiamo parlando di paesi democratici con un diritto sovrano di determinare il corso della propria politica estera. Possiamo avere un approccio neutrale, ma le nostre scelte sono guidate dai nostri valori».
(…) «Non abbiamo bisogno di un incremento della competizione strategica nella regione, ma di individuare ambiti di cooperazione nel pieno riconoscimento della sovranità e dell’indipendenza di quanti chiamano ‘casa’ questa regione. Ognuno di noi deve mantenere la propria indipendenza, Nuova Zelanda compresa ovviamente, ma siamo parte di una famiglia incredibilmente importante per noi e per le nostre decisioni».
Questa è una delle sfide a una politica estera indipendente, ma anche a chiunque persegua pace e stabilità attraverso il dialogo e la diplomazia in una fase dove il margine d’errore è minimo e i rischi di fraintendimento alti.
«La guerra in Ucraina è senza dubbio illegale e ingiustificabile. La Russia dev’essere chiamata a risponderne e tutti noi abbiamo un ruolo nell’assicurare che ciò avvenga. Per questo la Nuova Zelanda sosterrà l’azione di Kiev contro la Russia presso la Corte penale internazionale affinché i crimini di guerra e contro l’umanità commessi in Ucraina siano pienamente accertati e perseguiti. Ma nel compiere ogni sforzo possibile per rispondere all’aggressione russa e inchiodare Mosca alle sue responsabilità dobbiamo tenere a mente che questa è essenzialmente una guerra della Russia.
E […] non dobbiamo cadere nell’errore di dipingere il conflitto come una guerra tra Russia e Occidente, tra democrazia e autocrazia. Non lo è. Né dobbiamo scorgervi la premessa di un’inevitabile sviluppo in altre aree di confronto geostrategico».
«Di fronte all’aumento delle tensioni anche nella nostra regione indo-pacifica, lo strumento principale dev’essere la diplomazia, la de-escalation l’obiettivo primario. Non ci riusciremo, tuttavia, se gli attori che cerchiamo di coinvolgere sono sempre più isolati e se la regione che abitiamo diviene sempre più divisa e polarizzata.
Non dobbiamo permettere agli eventi di trasformarsi in profezie che si autoavverano, segnando così il destino della nostra regione.
(…) «Abbiamo una storia e degli interessi nell’Indo-Pacifico, al pari dell’Australia. Entrambi i paesi hanno investito molto nelle relazioni e nelle istituzioni regionali, non da ultimo perché quanto accade nell’Indo-Pacifico si ripercuote sul nostro quadrante. Ne consegue che dobbiamo rendere l’Indo-Pacifico più resistente alle sfide mediante le relazioni diplomatiche ed economiche».
«Spesso sono gli allineamenti strategici a costituire la leva principale delle relazioni intergovernative, ma a nostro modo di vedere sono i rapporti economici che rafforzeranno veramente la nostra regione». […] Stiamo ora aprendo la strada alla prossima generazione di accordi con iniziative come l’Accordo sul cambiamento climatico, il commercio e la sostenibilità che mira a far circolare più liberamente beni e servizi a valenza climatica, o il Partenariato per l’economia digitale.
(…) Il commercio costruisce ponti, è veicolo di una cooperazione (…) che trascende lo scambio di beni e servizi. Crea connessioni, obblighi reciproci, interessi condivisi, benefici comuni e in tal modo riduce i conflitti favorendo pace, stabilità e prosperità». Niente di strano, dunque, se il commercio resta centrale nella politica estera della Nuova Zelanda.
«La nostra relazione commerciale con la Cina, ad esempio, continua a crescere sostenuta dagli accordi di libero scambio siglati in passato. Anche se Pechino diventa più decisa nel perseguimento delle sue priorità, restano interessi comuni sui quali possiamo e dobbiamo cooperare. L’ordine postbellico basato sulle regole ha favorito l’ascesa cinese e in quanto membro permanente del Consiglio di Sicurezza dell’Onu la Cina può svolgere un ruolo chiave nel sostenerlo».
«Quasi cinquant’anni fa il premier neozelandese Norman Kirk salutò la fregata Hmnzs Otago che salpava verso l’atollo di Mururoa per protestare contro i test nucleari francesi. Disse ai membri dell’equipaggio che la loro missione era ‘onorevole’, che erano ‘testimoni silenziosi della forza di risvegliare la coscienza del mondo’. Da allora non siamo rimasti in silenzio, né siamo stati testimoni passivi».
«(…) la Nuova Zelanda è una nazione fieramente denuclearizzata. I nostri valori ci imponevano di ribellarci a decenni di test nucleari nel Pacifico. Contrastare le armi nucleari è oggi un caposaldo della nostra politica estera. Gli effetti di quei test continuano ancora oggi e la Nuova Zelanda sostiene azioni regionali collettive in materia. Integriamo la Pacific Islands Forum Taskforce per affrontare i problemi legati agli effetti delle radiazioni, questione che non è puramente teorica o solo regionale».
«La Nuova Zelanda ha pertanto accolto con favore l’Australia come osservatore al primo incontro degli Stati membri del Trattato per la proibizione delle armi nucleari. Siamo fermi sostenitori di questo trattato, al quale possono aderire solo paesi privi di armi atomiche. Cinquant’anni dopo Kirk, il disarmo nucleare resta per noi una priorità».
«Le sfide e le opportunità del mondo digitale, (…) o il terrorismo interno di cui la Nuova Zelanda ha fatto dolorosa esperienza con l’attentato alla moschea di Christchurch del marzo 2019, che ha ucciso 51 persone e ne ha ferite decine. (…) Così, sicuramente, il cambiamento climatico (…) che già oggi minaccia concretamente alcune parti del nostro paese, come il territorio dipendente delle isole Tokelau. (…)
«(…) L’Australia è il nostro secondo partner commerciale, il nostro unico alleato formale, la destinazione principale dei nostri investimenti esteri e l’origine del 40% del nostro turismo. Condividiamo persone, problemi e soluzioni. Quando guardiamo ai nostri princìpi – cooperazione, valori e geografia – l’Australia rientra pienamente in tutti e tre. (…) In tempi difficili ciò conta molto, (…) anche se non siamo sempre d’accordo».