L’Internazionale, giornale che amo, nel numero estivo appena uscito racconta nella rubrica Portfolio un bel progetto della fotografa argentina Irina Werning, “Back to the future”: lei prende un’immagine da un vecchio album di ricordi e chiede ai soggetti ritratti di farsi fotografare nella stessa identica situazione, dieci, venti, cinquanta anni dopo. Stessa posa, stessi sguardi, stessi oggetti nel limite del possibile, identici sfondi. Un effetto bellissimo, straniante e poetico.
Una macchina del tempo, titola la rivista diretta da Giovanni De Mauro. Potremmo dire, guardando quelle immagini, che nel non visibile, nel non dichiarato, si coglie la meraviglia della vita che passa, si accende la domanda sulla potenza dell’essere umano, sul margine che ci appartiene e ci fa riflettere tra il prima e il dopo, in un insieme di piccole certezze e insicurezze, paure e trasformazioni. La bellezza di un progetto artistico, direi filosofico, è nelle domande che accende, nei dubbi che pone. Di risposte ne abbiamo anche troppe, ci mancano gli interrogativi che animano fertile il pensiero, che scavano e non seppelliscono.
Penso alle foto di quando ero piccino e penso che in tante pose ho lo stesso atteggiamento che ho sempre avuto, che adesso mi raggiunge nel profondo: un sorriso con dolcezza, un velo di tristezza celato in un pensiero lontano. E proprio perché mi vedo così penso al “Back to the future” non visibile a colpo d’occhio: quali sogni, quali ambizioni e desideri celavamo tanti anni fa nel profondo delle nostre coscienze? Che cosa siamo diventati nel percorso del tempo, uscendo dalla posa delle vecchissime fotografie delle scuole elementari, da quelle delle gare di atletica, delle manifestazioni e delle feste o delle cerimonie?
Chi eravamo veramente lo possiamo comprendere davvero nel passaggio tra la sostanza di quei sogni e la materia della realtà in cui viviamo, che accettiamo o combattiamo, che ci fa star bene o male, che ci lascia continuamente una traccia di qualcosa che ci rende cupo l’orizzonte anche quando è ricco e scintillante. Ci rifletto spesso, e mentre lo faccio, mentre le dita picchiettano sulla tastiera traendo parole e frasi, concetti e un modo per esprimere il pensiero che mi attraversa, credo che sia questo flusso a definirci, a raccontarci a che punto siamo della nostra storia, della leggenda, dell’utopia che ci prendeva per mano e ci conduceva al coraggio, al disinteresse, alla cura.
Sarebbe bello un “Back to the future” delle nostre coscienze civili, delle passioni, dei desideri e della bellezza che poeticamente anelavamo. Io, per esempio, mi sento come le mie foto antiche, stessa timidezza, stesso furore, anche adesso che i segni del tempo regnano sovrani sul corpo, sul viso, e lo sono nel cuore. In quell’invisibile che rintraccio ancora e che mi parla: non ho mai smesso di seguire l’utopia, di cercare di renderla concreta. Sicuramente non ho mai cambiato idea sulla vita, sull’etica, sulla giustizia sociale, sull’uguaglianza: né da studente, né da giornalista, né da attivista, né da oste libraio. E quando le cose dell’esistenza e l’impeto della carriera e del successo mi hanno spinto verso il compromesso anche sottile, verso l’accettazione di un sistema ingiusto, pure se personalmente ed economicamente conveniente, mi sono fermato abbastanza in tempo, ho preferito di no. Senza drammi, senza rimpianti, ma senza paure.
Questo mi aiuta a guardarmi con dolcezza nel passato che volge al futuro. A vedermi in trasparenza. A godermi la misura della mia vita, delle piccole scelte culturali e sociali, di quelle politiche senza dover rendere conto a nessuno. Nel disinteresse filosofico che somiglia alla dolcezza rivoluzionaria della semplicità.
Ho scritto questo testo con fatica. Mille volte pensando di lasciar perdere. Certe volte la pena che si può provare per quello che abbiamo intorno, la rabbia e la rassegnazione, prendono il sopravvento. Cerchiamo di non perderci d’animo. Ce lo ripetiamo come un mantra anche se viviamo in una fase storica, mediatica e culturale in cui non alziamo gli occhi dagli schermi piatti e dalle discussioni inutili che non ci riguardano, che non sfiorano neanche minimamente la sostanza della nostra vita, la poesia delle idee libere che hanno innervato la coscienza civile, la disobbedienza, lo sguardo di quel coraggio che dovrebbe appartenerci. Che avremmo dovuto, che dobbiamo, trasmettere ai nostri figli. Per la costruzione di un mondo migliore rispondendo alla coscienza, al futuro e non all’idea opaca di assuefazione da tardo capitalismo ottuso. Perché, amici miei, è ottuso questo sistema, con i suoi cupi confini che oscurano e rendono faticosa la possibilità di pensarsi fuori da essi.
Quindi “Back to the future”, per riprendere in mano il sogno, l’utopia, la libertà dei nostri sguardi, prima che sia troppo tardi. Per noi, per tutti.