Per stabilizzare l’Europa dopo la tempesta delle guerre napoleoniche fu convocato a Vienna un congresso tra le varie potenze che avevano sconfitto l’imperatore dei francesi. Convocato nel novembre 1814, fu rallentato dalla notizia che Napoleone era fuggito dall’isola d’Elba, ma concluse i suoi lavori pochi giorni prima della sconfitta definitiva a Waterloo il 18 giugno 1815. Nonostante le celebri raffigurazioni dei capi di stato, dei ministri e degli altri diplomatici seduti intorno a un tavolo, in realtà non si svolsero sedute plenarie, ma fu intessuta una fitta rete di rapporti bilaterali, di scambi di territori e di altre ‘compensazioni’ tra stati.
La Francia, che avrebbe dovuto essere il paese sconfitto da punire, ricevette alla fine un trattamento abbastanza favorevole, soprattutto grazie alla grande abilità diplomatica venata da una certa dose di cinismo di Charles Maurice de Talleyrand. Il politico francese, che prima della rivoluzione era stato vescovo di Autun e in seguito ministro degli esteri del Direttorio e di Napoleone, seppe sfruttare con grande disinvoltura le divisioni degli altri, o meglio le divergenze di posizioni, a vantaggio della Francia.
L’altro grande protagonista fu l’austriaco Clemens von Metternich che riportò l’Austria ai fasti imperiali, ma soprattutto fu sempre informato di quanto dicevano gli altri grazie ad un efficientissimo servizio di intercettazioni di lettere e dispacci. La principale conseguenza del congresso fu la Santa Alleanza, ovvero un accordo tra Austria, Russia e Prussia, per impedire altri mutamenti in Europa e che prevedeva l’intervento delle grandi potenze qualora si fosse verificato un cambiamento nello status quo non solo riguardante le relazioni tra stati, ma anche il loro assetto interno. E ciò significava negare ogni eventuale trasformazione anche istituzionale, nel senso che le monarchie restaurate sarebbero rimaste ‘assolute’, con i pieni poteri nelle mani dei rispettivi sovrani, senza un parlamento eletto dal popolo.
In base a questi principi l’Austria poté intervenire in Italia nel 1821 quando scoppiarono moti nel regno delle Due Sicilie, ma, quando nel 1830 la rivoluzione di luglio a Parigi rovesciò Carlo X sostituendolo con Luigi Filippo d’Orleans che concesse la costituzione, non ci fu nessun intervento.
Dal fatto però, nei singoli paesi europei, si rafforzò un movimento liberale che più o meno ovunque richiese una carta costituzionale e la fine del regime assoluto.
Il 28 giugno 1919, esattamente cinque anni dopo l’attentato di Sarajevo che aveva provocato lo scoppio della Prima Guerra mondiale, a Versailles fu siglato il trattato di pace. In questa occasione alla Germania sconfitta non furono fatti sconti dalle altre potenze; anzi, per costringerla ad accettare le pesanti condizioni del trattato, fino alla primavera del 1919, non furono revocate nemmeno le limitazioni sugli approvvigionamenti alimentari. Ciò significò altre decine di migliaia di morti nella popolazione civile sostanzialmente per fame, in quanto non furono nemmeno concessi i diritti di pesca nel Baltico e nel mare del Nord.
L’imposizione più gravosa riguardava l’assunzione da parte della Germania della responsabilità della guerra: da questa ammissione sarebbe derivata anche l’accettazione del giusto castigo, ossia una vera e propria umiliazione. Il trattato di Versailles cambiò anche la carta dell’Europa: scomparvero l’impero austro-ungherese, quello germanico, l’impero russo e quello ottomano con la conseguenza principale che qua e la sorsero movimenti nazionalisti e revanscisti di ogni tipo, ma soprattutto ondate di profughi che non potevano più risiedere nello stato in cui erano nati.
La pace di Versailles fu insomma un armistizio, non un trattato di pace e ben presto se ne videro le conseguenze. Soprattutto la Francia pretese dalla Germania un risarcimento dei danni di guerra che si rivelò impossibile; nel 1923, insoddisfatta per l’andamento dei pagamenti, la Francia unilateralmente occupò le regioni tedesche della Saar e della Ruhr come garanzia dei risarcimenti. Il gesto francese mise ulteriormente in crisi la repubblica di Weimar che si trovò ad affrontare una violenta reazione da parte dei nazionalisti originando un’instabilità che l’avrebbe condotta all’avvento del nazismo.
Tra i pochi ad esprimere serie perplessità sul trattamento imposto vi fu l’economista inglese John Maynard Keynes che rimarcò in un celebre libro (“Le conseguenze economiche della pace”) la mancanza di un serio progetto di ripresa economica, senza il quale non solo la Germania non avrebbe mai potuto pagare i danni di guerra, ne avere un governo stabile. Seguì, come è noto, una seconda guerra peggiore della prima, ma – di fatto – la Germania pagò l’ultima rata dei danni di guerra nel 2010.
Più complesso il discorso che si avviò nel secondo dopoguerra. A Parigi, per la seconda volta in un secolo, si tennero i lavori della conferenza della pace. La Germania era assente per il semplice motivo che non solo era stata duramente sconfitta, ma anche smembrata e occupata dagli alleati. Le trattative durarono dal 29 luglio al 15 ottobre 1946 cui seguì la firma dei trattati nel febbraio 1947. Stati Uniti, Gran Bretagna, Unione Sovietica e Francia discussero le condizioni con gli sconfitti: Italia, Bulgaria, Romania, Ungheria e Finlandia, ovvero gli alleati dell’Asse. L’Italia in particolare perdette le colonie, parti del territorio nazionale, obbligata alla rifusione dei danni di guerra e soggetta ad altre limitazioni sul piano militare.
Per quanto l’Europa Orientale furono rideterminati i confini tra Ungheria, Romania, Bulgaria e Cecoslovacchia che durante la guerra erano stati modificati da annessioni unilaterali. La Polonia invece ampliò i propri confini inglobando territori tedeschi, come del resto era già stato deciso nell’agosto 1945 a Potsdam dalle potenze vincitrici. Anche la Finlandia dovette cedere parti di territorio all’Unione Sovietica, ma cominciò anche la situazione che fu definita in seguito ‘finlandizzazione’, ovvero una costante pressione del potente vicino che finì col ridurne la piena sovranità. Nel frattempo, a complicare le cose, arrivò la guerra fredda: gradatamente tra i paesi occidentali si allentarono le tensioni, o meglio si trasferirono sul confine orientale verso l’Unione Sovietica.
Il 10 febbraio 1947, il giorno della firma, in Italia fu comunque una giornata terribile, bloccata da uno sciopero generale e con bandiere a mezzasta, una giornata in cui la stragrande maggioranza del Paese ritenne ingiuste molte tra le clausole imposte. Solo con i primi accordi con altri paesi europei (ad esempio con il Belgio per il carbone) la situazione cominciò a normalizzarsi, ma un recupero del rango internazionale vero si ebbe solo dopo l’ammissione alle Nazioni Unite e con i trattati di Roma per la creazione della Comunità Europea.