
Sparatorie in diretta televisiva, guardie carcerarie e agenti di polizia presi in ostaggio, scuole e negozi chiusi e almeno dieci morti. l’Ecuador in guerra con gruppi di narcotrafficanti mentre il presidente Daniel Noboa ha ordinato «la mobilitazione e l’intervento delle forze armate e della polizia nazionale per garantire la sovranità e l’integrità nazionale contro la criminalità organizzata e i gruppi terroristici». Ma in guerra la realtà è molto diversa.
L’8 gennaio la dichiarazione dello stato di emergenza dopo all’evasione di Adolfo Macías, noto come ‘Fito’, leader del principale gruppo criminale del paese, e a una serie di rivolte organizzate nelle carceri. Daniel Noboa, 36 anni, il più giovane presidente nella storia del paese, ha dato ordine alle forze armate di ‘neutralizzare’ l’eversione criminale, ma «nel rispetto dei diritti umani». Niente macelleria, e un preciso elenco delle bande criminal-mafioso legate al narcotraffico, ben note ma sempre operative e spregiudicate.
A meno di tre chilometri dalla tv assediata, una gang dava l’assalto all’Università, un’altra incendiava vetture in centro. Ventinove gli edifici bersaglio delle bande, tra cui cinque ospedali. A Quito, un ponte pedonale sulla Panamericana è saltato in aria, tre attentati con altrettante autobombe sono stati sventati. In sei carceri, i detenuti si sono ribellati e hanno sequestrato un centinaio di guardie. Nelle principali città, gli uffici pubblici sono stati evacuati, i cittadini invitati a restare a casa e a fare smart working, le lezioni hanno traslocato su Internet, negozi e centri commerciali chiusi. Addirittura, a Esmeraldas, il vescovo, Antonio Crameri, ha chiesto la sospensione delle Messe, come durante il Covid.
Adolfo Macías, detto Fito, 44 anni, leader di Los Choneros, una banda che secondo gli esperti è composta da circa ottomila uomini, è fuggito dal carcere di Guayaquil, nel sudovest del paese, il 7 gennaio. Il 9 gennaio è evaso anche Fabricio Colón Pico, leader della banda Los Lobos.
L’Ecuador è devastato dalla violenza dopo essere diventato il principale punto di esportazione della cocaina prodotta nei vicini Perù e Colombia. E le sue semplici bande di strada, sono diventate protagoniste del traffico internazionale di droga e della violenza. Gli omicidi sono aumentati dell’800 per cento tra il 2018 e il 2023, passando da 6 a 46 ogni centomila abitanti. Nel 2023 sono stati registrati 7.800 omicidi e sono state sequestrate 220 tonnellate di droga.
Dietro le porte dei trentasei penitenziari ecuadoriani per capire cosa sta accadendo. Stato parallelo sotto l’apparente normalità democratica del Continente. Un sistema con proprie leggi e strumenti di autoregolazione – violenti – finanziato con il denaro del traffico di cocaina, ma anche con il commercio di esseri umani, la prostituzione forzata, la schiavitù lavorativa. Denuncia Avvenire.
La ‘materia prima’ non manca nelle categorie di scartabili e scartati, per parafrasare papa Francesco. Nei casi migliori – le nazioni considerate maggiormente stabili -, i due regimi scorrono fianco a fianco, pur intersecandosi in alcuni momenti. Ma in un numero crescente di Paesi latinoamericani, negli ultimi decenni, «il ‘secondo Stato’ ha avviato la cattura del primo, pezzo a pezzo».
Il caso più evidente e più compiuto -segnala Lucia Capuzzi- è quello del Messico tanto da avere dato origine a una categoria della sociologia criminale detta ora, ‘messicanizzazione’. Di messicanizzazione ha parlato anche il Papa e dal Messico la protesta. Per Haiti non si può nemmeno parlare di messicanizzazione: «l’apparato istituzionale è imploso, lasciando il Paese in una condizione di anarchia bellica in cui duecento gang si affrontano a colpi di stragi nell’attesa di un intervento internazionale che non arriva mai».
Negli ultimi anni, i due principali cartelli messicani – Sinaloa e Jalisco nueva generación – hanno iniziato la conquista del porto ecuadoregno di Guayaquil, snodo cruciale della ‘rotta pacifica’ della droga verso Usa e Europa. Battaglia cominciata nelle prigioni, lasciate all’amministrazione feroce della criminalità organizzata. E i i narcos hanno l’arruolamento delle bande locali, Los Choneros e Los Lobos.
«La decapitazione di massa di 79 detenuti il 23 febbraio 2021 era stato un segnale eloquente ma ignorato. Da lì massacri, stupri, pizzo sono dilagati nelle strade ecuadoriane, al ritmo di ventuno omicidi al giorno». Il caos ha favorito la vittoria, alle ultime presidenziali, del multimilionario Daniel Noboa, il quale ha centrato tutta la campagna elettorale sul pugno di ferro contro il crimine.
Il ‘metodo Bukele’, lo chiamano dal nome del presidente salvadoregno che è riuscito a ridurre la violenza delle ‘maras’ con un mix di arresti di massa, stato di polizia, svuotamento dei poteri del Parlamento e dei giudici. Dal suo punto di vista, la strategia ha funzionato: le bande sono sparite dalle strade, i delitti sono calati e il giovane leader si ripresenta alle urne il 4 febbraio, nonostante l’esplicito divieto costituzionale, sicuro di vincere.
«Il prezzo da pagare per combattere le mafie è che reagiscono quando si sentono attaccate», è la risposta comune. Quelle mafie hanno conquistato interi pezzi dello Stato, con i quali affrontano i rivali e i loro sponsor istituzionali. «Ecco perché la risposta muscolare innesca una guerra molto più devastante del previsto. La quale, oltretutto, altera l’equilibrio tra gruppi senza intaccare i fondamenti del ‘secondo Stato’ e i suoi legami perversi con il primo».
Per farlo – gli esperti non si stancano di ripeterlo – occorrerebbero riforme giudiziarie che rendano i magistrati indipendenti dalla politica e finanziarie per arginare le reti di riciclaggio da cui deriva il potere di corruzione dei narcos. Misure che, però, solleticano meno la ‘pancia’ degli elettori.