
Naturalmente, il rapporto di causa ed effetto è più complesso, ma è un fatto che il diritto internazionale fatto a pezzi o invocato a geometria variabile abbia provocato, negli ultimi decenni, instabilità, conflitti e situazioni sociali ed economiche diametralmente opposte a quelle auspicate: lacerazione di confini, pulizia etnica, ondate migratorie, scontri religiosi sono diventati i tragici titoli della nostra storia recente. Le strategie che Europa e Stati Uniti hanno portato avanti dal 1991 nella ex Jugoslavia dovevano segnare la nuova era dei diritti dei popoli, prevalenti sui confini degli stati e sul dispotismo dei dittatori.
Il rapido riconoscimento da parte dei Paesi europei (Germania in testa) dell’indipendenza di Croazia e Bosnia, gli accordi di Dayton per l’unità della Bosnia dopo i massacri e il bombardamento della Serbia per sostenere le aspirazioni separatiste della minoranza albanese del Kosovo, minacciata da Belgrado, avevano affermato nella coscienza internazionale alcune regole non scritte e non universalmente riconosciute, compreso l’eliminazione violenta dei dittatori (Gheddafi, Saddam Hussein) o la loro incriminazione nei tribunali internazionali (ieri Milosevic, domani, forse Putin).
Ma la nobiltà morale delle regole (in primis, il diritto dei popoli all’autodeterminazione) non ha tenuto conto dei modi e dei prezzi che si dovevano pagare per affermarle. Anziché una nuova era, si sono innescate instabilità e rivalse. Anziché un nuovo quadro di principii, applicabile ad altri focolai di conflitto nel mondo, dalla Cecenia al Medio Oriente, dall’Ucraina a Taiwan, si è alimentato il disordine internazionale.
‘Geometrie variabili’
I Balcani, in particolare, sono rimasti in balia di strategie contraddittorie e intercambiabili. I musulmani alla mercé dei serbi a Sarajevo e armati contro i serbi in Kosovo. Milosevic, la soluzione per la stabilità (con gli accordi di Dayton) e poi il problema da eliminare. L’unità e l’integrità dello Stato, rispettate per la Bosnia, non riconosciute alla Serbia, costretta all’amputazione del Kosovo.
A questi sviluppi, si è sovrapposta la marcia a zig zag per l’adesione all’Europa, con le porte aperte a Slovenia e Croazia e l’anticamera per la Serbia, il cui calendario è oggi condizionato dalle ambizioni di Ucraina e Moldavia. Migliaia di soldati dell’Onu, miliardi di dollari e complicati artifici politici hanno soltanto sopito l’odio etnico e religioso in cui è cresciuta un’intera generazione. L’esito più perverso è la Serbia: l’unica nazione rimasta multietnica, nonostante Milosevic, si scopre più nazionalista e ortodossa senza Milosevic ed essa stessa vittima, in Kosovo, di pulizia etnica. Il meno che si possa fare è però ripensare in fretta una strategia coerente per tutta la regione, che affermi i diritti di tutti i popoli e la possibilità d’immaginarsi europei, senza più pagelle di affidabilità e sostegni di convenienza.
Uno spiraglio si era aperto nei mesi scorsi durante il vertice europeo di Tirana, in presenza di tutti i protagonisti, compresi i nemici di ieri e di oggi. Come rilevava per l’occasione Le Monde, «dopo l’invasione russa dell’Ucraina, l’Ue ha cambiato tono nei confronti di questa regione». Se da un lato l’Ue è mobilitata per aiutare l’Ucraina, dall’altro è evidente il desiderio di mantenere la stabilità in una regione su cui incombono ombre russe e cinesi, in particolare a Belgrado. La Serbia continua a mantenere relazioni commerciali con Mosca ed è anche un hub interessante per aggirare le sanzioni.
«I Balcani si sono sentiti traditi, bloccati nell’anticamera del club europeo che ha accettato la candidatura di Ucraina e Moldavia». In realtà sono state mobilitate risorse europee per sostenere lo sviluppo di questi Paesi, ma miliardi di euro non sembrano sufficienti a calmare gli animi. Negli ultimi due anni, il Montenegro, l’Albania e la Macedonia settentrionale hanno visto convalidato il loro status di candidati all’Ue e sono iniziati i primi colloqui. A novembre, la Commissione ha proposto che anche la Bosnia-Erzegovina si qualifichi per lo status di candidato. Ma il nodo cruciale resta la Serbia, fino a quando non sarà raggiunto un definitivo accordo politico con il Kosovo, peraltro non ancora riconosciuto da cinque Stati membri dell’Unione Europea, fra i quali la Spagna, per evidenti ragioni di politica interna, date le tensioni in Catalogna.
Logico che Russia e Cina, alleati della Serbia e interessati al futuro dei Balcani, prendano spesso le difese di Belgrado. La questione del Kosovo è così diventata anche l’alibi per la politica di Putin, prima in Crimea e poi nel Donbass. Belgrado coltiva aspirazioni di integrazione europea, ma non può abbandonare le minoranze serbe. L’adesione all’Ue aiuterebbe a consolidare le istituzioni democratiche, a proteggere i diritti fondamentali e a far progredire lo Stato di diritto in tutta la regione balcanica. Ma la guerra in Ucraina ha sconvolto disegni e priorità. E Putin soffia sul fuoco.
Per quanti si appassionano a questa storia complicata, si noti una coincidenza in queste ore di violenze: il processo cominciato all’Aja contro l’ex presidente e leader della guerriglia kosovara, Hashim Thaçi. Eroe della resistenza contro i serbi e dei diritti delle minoranze, sostenuto dagli Stati Uniti, considerato a suo tempo il «George Washington dei Balcani», amico personale dell’ex ministro francese Bernard Kouchner, è ora incriminato per crimini di guerra e crimini contro l’umanità perpetrati contro le forze serbe.
Un caso emblematico, a dimostrazione che la storia nei Balcani è davvero ciclica e talvolta diventa un tragico gioco dell’oca.