Protagoniste indiscusse di queste proteste -‘le giovani iraniane della generazione Z- sottolinea il magazine americano – «vivono una vita che è sempre più in contrasto con il messaggio ideologico della Repubblica islamica, tra una repressione sempre più forte e le sanzioni statunitensi che hanno devastato l’economia del Paese mentre il sistema di potere appare paralizzato, preferisce l’isolamento internazionale».
«Tra i tanti motivi per cui la ribellione sta andando avanti da così tanto tempo c’è la risposta balbettante di un governo che riconosce la fondatezza della denuncia» prosegue il Time nella sua analisi. «Con vecchie élite rivoluzionarie che hanno messo in guardia da un sistema che ha completamente smarrito la strada, che non può più permettersi di sovvenzionare la sua base sociale tradizionale, che ha alienato tutti gli altri, compresi i religiosi, e ha subordinato il benessere dei suoi cittadini alla sicurezza».
Sono 18.000 gli arrestati e una ventina le condanne già emesse. E la cronaca di agenzia celebra nella semplice crudeltà del dire, l’assurdo del fare. «Spari ai genitali e al seno delle manifestanti. Impiccato un manifestante». Colpire il sesso e sfigurare per punire lo spregio della rivolta. Stato mafioso. Tante brutalità stimolano pensieri di ipotetica vendetta atroci. Ma al momento sono soli i giovani iraniani arrabbiati a morire. Mohsen Shekari, di 23 anni, era stato arrestato, processato e ritenuto colpevole di “inimicizia contro Dio“. Giudici e boia amicissimi di un ben strano dio.
Quella di Shekari è la prima esecuzione di un manifestante di cui si è avuta notizia, anche se alcuni attivisti ritengono che ve ne siano già state altre e altre 11 persone già condannate a morte, tra cui Fahimeh Karimi, allenatrice di pallavolo e madre di tre bambini piccoli.
Secondo Iran Human Rights ed Amnesty International, il giovane è stato condannato in un “processo farsa, esageratamente iniquo”, mentre la magistratura iraniana ha fatto sapere che la sentenza è arrivata dopo che il ragazzo aveva ammesso i suoi crimini in tribunale. Una “confessione” che secondo gli attivisti, e i media dissidenti con sede all’estero, è stata forzata, dal momento che i video in cui il giovane ammette le sue colpe, diffusi da canali televisivi legati alle Guardie della rivoluzione, lo ritraggono con il volto tumefatto.
Problemi anche in casa Ayatollah. Farideh Muradkhani, nipote della ‘Guida suprema’, Ali Khamenei, è stata condannata a 15 anni di carcere dal Tribunale speciale del clero, pena poi ridotta a 3 anni. La donna era stata arrestata il 23 novembre scorso. Prima di finire in carcere, aveva chiesto ai Paesi “amanti della libertà” di espellere gli ambasciatori dell’Iran, a sostegno delle proteste del popolo iraniano. Farideh è figlia di Badri Hosseini Khamenei, sorella di Ali, che nei giorni scorsi ha condannato la ferocia della repressione delle proteste.
«La Repubblica islamica è a un bivio. Può irrigidirsi ulteriormente, diventando una dittatura spietata con i pasdaran che scavalcano il clero, ma parte del regime ha memoria di come nel 1979 la brutalità dello scià ne abbia accelerato la fine. Oppure si cerca di salvare il sistema facendo concessioni sostanziali ai cittadini». Riccardo Redaelli, dell’Università Cattolica di Milano, autore del saggio ‘L’Iran contemporaneo’, spiega e cerca di capire, prevedere, sentito da Farian Sabahi sul Manifesto. Il racconto del professore disegna un vertice iraniano molto più frazionato di quanto appaia.
«Riformisti ormai del tutto marginalizzati, moderati, pragmatici, conservatori tradizionali, ultraradicali e, sullo sfondo, la formidabile crescita di potere dei pasdaran a livello politico, economico e militare. È in atto uno scontro tra quei conservatori che vogliono il pugno di ferro e quelli che invece cercano di non esasperare le tensioni e quindi di limitare la repressione. Queste divisioni hanno fatto rientrare in gioco l’ex presidente riformatore Mohammad Khatami che ha parlato di richieste di libertà che devono essere ascoltate. Difficile fare previsioni, la variabile sono i pasdaran, che finora si sono tenuti prudentemente fuori dalla repressione».
«Solo durante i mondiali di calcio 12-15 persone sono state giustiziate in Arabia saudita. Il nostro sistema valoriale è miope quando guardiamo ai nostri alleati. E non abbiamo speso grandi parole per le migliaia di immigrati morti per costruire gli stadi in Qatar», conclude il professore. A cui noi vogliano aggiungere Alberto Negri che propone una riflessione chiave:
Ci indigniamo, giustamente, per le uccisioni e le condanne a morte in Iran, un po’ meno per quelle in Cina e in Arabia saudita, ancora meno per i morti palestinesi, di quelli birmani, poi, ci siamo già dimenticati, anche l’Afghanistan l’abbiamo archiviato. Ingiustizie, amnesie, pelo sullo stomaco, opportunismo politico? Il doppio standard ha vari nomi e molti popoli che pesano sulle nostre coscienze.
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