
Per Giorgia Meloni e il suo governo diventa sempre più complicata la gestione del nodo ‘Via della Seta’. Nel 2019 l’Italia – unico tra i Paesi del G7 – firmò ufficialmente l’adesione al grande progetto con cui Xi Jinping si proponeva di espandere l’influenza economica e commerciale di Pechino nel mondo.
La firma ai tempi del governo giallo-verde di Conte e Salvini, con l’ex ministro degli Esteri Di Maio particolarmente solerte nel favorire l’accordo ufficiale. Piovvero subito le critiche da parte Usa e delle altre nazioni del G7. All’Italia fu rimproverato di essere stata troppo frettolosa, e di non aver concordato la firma con i partner del G7.
Nel frattempo si avvicina la scadenza dell’accordo, il cui rinnovo la Repubblica Popolare si attende, considerandolo pressoché automatico. La situazione è complicata perché i rapporti commerciali tra Italia e Cina sono molto intensi, e il mancato rinnovo potrebbe causarci grandi problemi.
Si noti un fatto curioso (ma non troppo). E’ vero che solo l’Italia ha firmato. Tuttavia altri Paesi del G7, pur non avendo aderito al progetto di Xi, sono ben attente a tutelare i propri interessi. Lo testimoniano i viaggi a Pechino di Emmanuel Macron e di Olaf Scholz, entrambi accompagnati da folte delegazioni di imprenditori e banchieri. Il presidente francese e il cancelliere tedesco hanno in sostanza ignorato gli avvertimenti Usa, puntando dritti alla tutela dei loro interessi nazionali.
Il problema della premier italiana è che ha bisogno di accreditarsi a Washington assumendo posizioni super atlantiste, come si è visto anche nella vicenda del conflitto ucraino. Deve però tenere conto dell’inquietudine del nostro mondo imprenditoriale e finanziario, che teme moltissimo le eventuali ricadute di un mancato rinnovo dell’accordo. Di qui il consiglio al governo di mantenere un “profilo basso”, anche se il trucco non potrà funzionare all’infinito.
Ma non è finita qui. Il governo di Taiwan (‘Repubblica di Cina’) aprirà a breve, a Milano, un secondo ufficio di rappresentanza dopo quello già presente a Roma. Anche i nostri rapporti commerciali con l’isola ‘indipendente de facto’ sono molto floridi, ma non certo paragonabili a quelli con Pechino.
Basti dire che l’interscambio con Taiwan ammonta a poco meno di 6 miliardi di dollari l’anno, mentre con la Repubblica Popolare lo scambio raggiunge 73 miliardi di dollari. La sproporzione è evidente.
La pressione degli americani, contrari al rinnovo, è molto forte. Ma lo è pure quella cinese. Pechino si fa forte del fatto che il fatturato di molte nostre aziende dipende per l’appunto dalla Cina. Non si è ancora capito come Meloni e il suo governo intendano uscire dall’impasse. Certo, sarebbe stato meglio non firmare l’accordo così di fretta.
Ma ora bisogna decidere se sia meglio evitare l’irritazione di Joe Biden oppure quella di Xi Jinping.