Tommaso Buscetta fu il più importante collaboratore di giustizia della storia d’Italia. Grazie a lui si scoprì come funzionava a livello decisionale la mafia siciliana, com’era strutturata, chi comandava e come. Parlò dei collegamenti di Cosa Nostra con la politica siciliana e nazionale, dei collegamenti internazionali, rivelò i nomi degli uomini delle cosche all’interno delle amministrazioni locali. E parlò degli omicidi: i motivi, chi li aveva decisi, chi erano stati gli esecutori materiali. Raccontò anche che cosa avvenne nel corso delle due guerre di mafia, quella del 1962 e quella tra il 1981 e il 1984, quando i corleonesi guidati da Totò Riina, non riuscendo a colpire lui, uccisero due suoi figli (scomparsi e mai più ritrovati), un fratello, un genero, un cognato, quattro nipoti e altri due parenti più lontani. In tutto vennero uccisi undici suoi familiari.
Tommaso Buscetta, giovanissimo piccolo contrabbandiere per campare in guerra, entrò a far parte della cosca mafiosa di Porta Nuova: a 17 anni ebbe la punciuta, la puntura di spillo, il giuramento di fedeltà col sangue. Per la cosca gestì negli anni Cinquanta e Sessanta il contrabbando internazionale di sigarette e il traffico di stupefacenti, viaggiando in tutto il mondo con passaporti falsi. Alla fine della sua carriera criminale aveva utilizzato 200 identità fittizie. Partecipò alla prima guerra di mafia, nel 1962, durante la quale si scontrarono le cosche palermitane. Buscetta si schierò dalla parte dei Greco e contro i La Barbera. In quell’occasione riuscì a sfuggire a un agguato nel centro di Palermo investendo i due sicari che stavano per sparargli. Fu anche accusato di aver partecipato alla strage di Ciaculli del 30 giugno 1963: un’autobomba che doveva colpire la famiglia dei La Barbera, ma qualcuno avvertì le forze di polizia. E l’esplosione uccise quattro carabinieri, due militari dell’esercito e un sottufficiale di polizia.
Buscetta negò sempre di aver partecipato alla strage. Per questo decise di lasciare l’Italia, fuggendo prima in Svizzera, poi in Messico, quindi in Canada e poi negli Stati Uniti. A New York, con i soldi che gli furono prestati dalla famiglia italoamericana dei Gambino, aprì una pizzeria.
Negli Stati Uniti Buscetta era arrivato con la sua fidanzata, Vera, da cui aveva avuto una figlia. Chiese però anche alla moglie, Melchiorra, di raggiungerlo con gli altri quattro figli, tre maschi e una femmina. A New York Buscetta aveva quindi due famiglie, ognuna ignara dell’esistenza dell’altra. Aprì altre due pizzerie. In Italia, processo di Catanzaro, venne intanto condannato a dieci anni per associazione a delinquere. Ma durante gli anni vissuti negli Stati Uniti, tornò più volte clandestinamente in Italia per la ricostruzione della “cupola”, cioè del gruppo dirigente di Cosa Nostra, dopo la guerra di mafia.
Nel 1970 venne arrestato negli Stati Uniti e rilasciato dopo il pagamento di una cauzione di 75 mila dollari. Andò in Brasile, lasciando sia la moglie sia la fidanzata. Nel paese sudamericano si fidanzò con una ragazza di vent’anni, Maria Cristina de Almeida Guimaraes, figlia di un avvocato molto famoso a Rio de Janeiro. Iniziò a lavorare nel suo studio ma contemporaneamente organizzò un traffico di eroina e cocaina verso gli Stati Uniti. Lo arrestarono nel 1972 assieme a una banda di trafficanti italoamericani, italobrasiliani e corsi: in un deposito trovarono che il gruppo conservava eroina per 25 miliardi di lire (più di 200 milioni di euro di oggi).
Per molti giorni venne torturato dalla polizia brasiliana che voleva estorcergli una confessione e avere i nomi di tutti i suoi complici. Lo portarono persino in volo sopra San Paolo minacciando di lanciarlo nel vuoto, come accadeva allora a molti desaparecidos politici in sudamerica. Il 3 dicembre 1972 venne per sua fortuna estradato in Italia. Scontò la pena prima a Palermo e poi a Torino. In quegli anni, raccontò dopo aver iniziato a collaborare con la giustizia, che fu avvicinato da un uomo di Francis Turatello, boss della malavita milanese, che gli chiese l’aiuto delle cosche palermitane per individuare la prigione di Aldo Moro, rapito dalle Brigate Rosse il 16 marzo 1978. Buscetta disse che furono poi i corleonesi a bloccare l’iniziativa.
Una cosa ve la rivela Remocontro. Tra i vari rifugi romani in cui fu protetto Buscetta pentito, uno, villetta con giardino, era proprio in via Gradoli, la strada del covo BR dove Aldo Moro fu detenuto e infine ucciso. Masino era stato appena raggiunto lì dai familiari brasiliani di Cristina, scoperti dalla mafia e a rischio di morte. Ma qui rischiamo di fare confusione di periodi e situazioni. Torniamo al Buscetta del va e vieni con Stati Uniti e Brasile, primi anni ’80.
Il 23 ottobre 1983, Tommaso Buscetta venne arrestato dalla polizia brasiliana assieme alla moglie Cristina e ad alcuni suoi complici Nel 1984, a luglio, i giudici Giovanni Falcone e Vincenzo Geraci andarono a Brasilia per convincerlo a diventare collaboratore di giustizia. Buscetta non rispose, disse che avrebbe preso in considerazione l’ipotesi. Quando, una volta decisa l’estradizione verso l’Italia, Buscetta fu caricato su un furgone che l’avrebbe condotto all’aeroporto, ingerì della stricnina che aveva nascosto sotto le unghie. La quantità non era tale da provocare la sua morte. Buscetta alla fine arrivò in Italia scortato da Gianni De Gennaro, allora capo del Nucleo centrale anticrimine della polizia. Scese nuovamente ammanettato la scaletta dell’aereo, esattamente come 12 anni prima. Ed è la foto storica di copertina.
«Sono stato un mafioso e ho commesso degli errori per i quali sono pronto a pagare integralmente il mio debito con la Giustizia, senza pretendere sconti o abbuoni di qualsiasi tipo. Invece, nell’interesse della società, dei miei figli e dei giovani, intendo rivelare tutto quanto è a mia conoscenza su quel cancro che è la mafia, affinché le nuove generazioni possano vivere in modo più degno e umano».
Buscetta rivelò l’organigramma di Cosa Nostra spiegando che la mafia era un’organizzazione unitaria retta da una commissione, la cosiddetta “cupola”. Era ciò che Falcone sosteneva da tempo: la descrizione della mafia come organizzazione unitaria passò alla storia come “teorema Buscetta”. I colloqui con Giovanni Falcone furono molti e lunghi. Disse Falcone: «Perché parla Buscetta? È animato da un fortissimo spirito di rivincita; sa di trovarsi con le spalle al muro». L’ultimo colloquio avvenne il 19 novembre 1984 e Buscetta chiese che venisse messa a verbale questa dichiarazione: «Sono stato ispirato solo dalla mia coscienza e non già da desiderio di rivincita o di vendetta: quest’ultima, infatti, non ha mai restituito quello che si è perduto per sempre. La mia scelta, quindi, maturata nel tempo, non è condizionata da rancori personali e tanto meno dall’aspirazione ad eventuali norme di favore per i cosiddetti pentiti».
In seguito alle dichiarazioni di Tommaso Buscetta vennero emessi 366 mandati di cattura nel corso di un’operazione denominata “San Michele”. Nel 1986 testimoniò al processo contro Cosa Nostra, il “Maxiprocesso”. Un anno prima era stato trasferito negli Stati Uniti dove aveva ricevuto la cittadinanza, una nuova identità ed era stato messo sotto protezione in cambio di rivelazioni sulla mafia americana. Testimoniò nel processo americano chiamato “Pizza connection”.
Dopo gli attentati in cui furono uccisi Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, nel 1992, Buscetta accettò di parlare dei rapporti tra mafia e politica. Prima di incontrare i magistrati venne sentito dalla Commissione parlamentare antimafia. In precedenza si era sempre rifiutato di farlo. Disse al presidente della commissione, Luciano Violante: «Che cosa è cambiato dopo la morte del giudice Falcone e Borsellino? È cambiata una predisposizione nuova, un interessamento maggiore, una volontà a fare meglio di come si è fatto fino a pochi mesi fa; quindi mi trovo pronto alla collaborazione».
Buscetta raccontò che Stefano Bontate e Gaetano Badalamenti gli avevano rivelato che Giulio Andreotti aveva chiesto a Cosa Nostra di uccidere il generale Carlo Alberto dalla Chiesa. «Lo hanno mandato a Palermo per sbarazzarsi di lui», raccontò Badalamenti a Buscetta, «non aveva fatto ancora niente in Sicilia che potesse giustificare questo grande odio nei suoi confronti». In effetti, Dalla Chiesa non aveva avuto tempo di minacciare seriamente Cosa Nostra. Badalementi, incontrato più volte nel carcere di Memphis dove poi è morto, non ha mai voluto ammerre nulla col cronista di cui già abbiamo detto.
Una sera di Roma estiva, Buscetta ufficialmente negli Usa ma nascosto in Italia, chiede a un giormalista divenuto amico e un po’ matto, di fare un giro in moto nel cuore di Roma. Vietatissimo e anche pericoloso. Ma Masino-Roberto sa convincere e in vespa col casco non è facile essere riconosciuti. Piazza Montecitorio de4serta, Parlamento sbarrato. «Quante volte sono entrato lì…», «Ah, amicizie siciliane…», «No no, soci del Club». Il linguaggio era sempre felpato, pieno di giri di parole. E lunghe pause tra una frase e l’altra. Masino da siciliano e il cronista per non sembrare sbirrro o magistrato. «Me erano quei due o tre ex onorevoli noti..?». «Ntzz (negazione alla siciliana sibilata con sole consonanti). No, erano altri e ci sono ancora». L’esclamazione-parolaccia di stupore alla bocca del cronista soffocatra, perché con Masino Buscetta si doveva parlare ‘pulito’. Poi una crociera stupida fatta da Masino per corteggiare la sempre amata Cristina, lui, sputtanato da un brutto personaggio e costretto ad un veloce rientro Usa. Il reporter finito a raccontare di altre guerre, divisero quei due strani amici per sempre. Ma quella passeggiata, tra le decine e decine di altri incontri, è ben fissa, nitida in memoria. Per quel che può valere e non sia semplice curiosità.
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