Per sapere ascoltare un canto, occorre trovare il silenzio, sottrarsi dal rumore di fondo che rende le nostre vite incessanti, obbedienti, caotiche, ricche talvolta, spesso disperate ma scintillanti, sostanzialmente piene di dimenticanze e di bruttezza, di specchietti per allodole e chincaglierie che vecchi e nuovi conquistadores continuano a farci brillare davanti agli occhi sbigottiti. Con una tale pertinacia e perfidia che la vita, quella cosa meravigliosa che possediamo, passa in secondo piano di fronte alla manfrina che nella società dello spettacolo è diventata la realtà stessa. Nonostante tutto, nostro malgrado, contro ogni forma di verifica accettabile.
Risalendo la stradina sterrata che sale dal cuore scosceso della valle appare la bellezza, mai assillante né oziosa, languida quando è ora e forte e lieve e austera.
Ne ascolto l’armonia, vale per ogni tempo e per ogni spazio. Respirando l’aria serena di sostanza sferzante. Non ci sono alternative, camminiamo in bilico tra memoria e futuro, ad ogni passo perdiamo qualcosa o salviamo qualcosa. Siamo noi i responsabili sacri della pietra, del sogno, della luna, del vento che agita coscienze e rende improvvisi gli sguardi. Siamo noi i custodi delle radici, degli alberi, della linea dell’orizzonte, della solitudine e della semplicità, di ciò che è spirituale, che ha a che fare con lo spirito, con l’immateriale, con la capacità di pensare la vita non come una successione banale e formattata di azioni, di successi legati a queste azioni obbedienti, inculcate per annullare in un colpo solo la magnificenza del ricordo e dell’utopia, del passato sul quale poggiamo i piedi e del domani per chi verrà.
Quando le manfrine diventano trappole, e la vita rischia di essere in ostaggio di queste trappole, come per il canto degli uccelli è necessario riscoprire il silenzio. Saper dire di no, spostare l’asse dei pensieri fuori dai binari che implicano conformismo e ripetizione astratta e durevole di azioni nefaste; riprendere a tessere le parole semplici, le narrazioni che fanno bene al cuore, dividendo il grano dal loglio, lasciando cadere ciò che ci fa male, recuperando spazio e desiderio, consapevolezza su ciò che serve per vivere. Il poco e il niente. Non il troppo e l’ingiusto.
Bisogna smetterla di celebrare eroi ed eroismi, tanto più se sono farlocchi, figli di codici dettati contro i nostri interessi. Conservare nel cuore la cura per quello che rende la vita semplice e dolce. Amara, tragica, fiaccante, sublime, piena di risate o anche di lacrime che sanno di sale e di rabbia. La vita insomma che non è quella cosa in ostaggio dei media e della mostra perenne di chi ha successo e quindi ha un diritto in più di renderci l’esistenza piatta e patetica.
Spetta a noi, qui e ora, risalire la strada scoscesa e dire di no. Per coltivare cultura e agire per salvare il mondo. Salvare i nostri figli, salvarci dalla brutalità del senso comune, dalla ferocia dell’interesse privato che è sempre scintillante e sempre cela distruzione simbolica, per lo meno, del bene comune. I nostri padri hanno faticato, hanno dato il sangue, si sono spaccati la schiena, sono stati poveri, hanno vissuto di espedienti. Non vuol dire che noi dobbiamo buttare tutta questa bellezza, la poesia della storia, la creatività dell’arte sublime per una vasca da idromassaggi.
Spetta a noi sottrarsi al tempo delle perline colorate, alla svendita di tutto, alla celebrazione della banalità, all’esaltazione del principio brutale del vantaggio e alla perdita del bene comune che definisce il territorio abitato da una comunità come spazio pubblico di incontro e di cultura.
Se perdiamo il concetto politico di spazio pubblico, perdiamo il futuro. Occorre tenere accesa la fiammella! Anche in tempi oscuri e fragorosi come questi.