Tre supergenerali dentro il nuovo governo di Israele. Per fare una ‘grande guerra’. Questo uno degli spunti emersi durante una riflessione sulle radici dell’ultimo trauma nazionale, un ‘piccolo Olocausto’. Il contesto geopolitico internazionale, l’evoluzione degli equilibri di forza nel Medio Oriente, la feroce dialettica nella politica interna dello Stato ebraico e i rapporti con le tante Palestina. A condurre la discussione il direttore Eiuf Benn, direttore.
La politica degli insediamenti, nei territori occupati, voluta e sostenuta dai partiti alleati di Netanyahu. I coloni vogliono terra e richiamano altri coloni, ha detto Benn, e per proteggerli bisogna mandare altri soldati. In un ciclo continuo che, metro dopo metro, diventa prima occupazione e poi espropriazione.
Gli ‘Accordi di Abramo’ fatti sulle loro teste perché, quello che interessava alle grandi potenze, Stati Uniti ed Europa, era creare le condizioni per evitare una crisi devastante nel Golfo Persico. Insomma, stabilizzare un’area più vasta della Palestina, che arriva fino allo Stretto di Hormuz, cooptando, l’Arabia Saudita.
Gerusalemme vuole chiudere i conti con Hamas e vuole approfittare dell’occasione per fare il passo più lungo della gamba, il timore di Haaretz. Ed ecco il nuovo ‘governo dei generali’, cioè un esecutivo di guerra con tre supecomandanti: Benni Gantz, Gadi Eisenkott e l’attuale Ministro della Difesa, Yoav Gallant.
Isteria politico elettorale americana. Israele-Hamas, ma assieme l’Iran presunto complice, verso cui la Casa Bianca cerca un riavvicinamento per l’accordo sul nucleare. Tempismo fortunato quei sei miliardi di dollari che, un paio di settimane fa, sono stati restituiti ai legittimi proprietari iraniani. E le polemiche maliziosamente elettorali impazzano. Il coinvolgimento dell’Iran nell’attacco di Hamas. Il Wall Street Journal ha scritto addirittura di una partecipazione attiva del Ministro degli Esteri iraniano, Hossein Amir-Abdollahian. Una circostanza che ridicolizzerebbe la Cia.
A difendere l’operato dell’Intelligence Usa, scende in campo nientemeno che il New York Times. Secondo gli 007 americani «anche gli iraniani sono rimasti sorpresi dall’attacco, perché non ne sapevano niente». Ma il Teheran Times cita Khamenei che lo scorso aveva pronosticato, «guai imminenti per Israele in arrivo dalla Palestina». Sapere non vuol dire esserne a capo, dice la prudenza diplomatica. Ma torniamo in casa Usa, il non aver capito ciò che certamente sapevi è colpa grave.
Naturalmente, tutta la stampa democratica fa quadrato attorno a Biden, in un momento di estrema fragilità. I Repubblicani accusano il Presidente di avere focalizzato tutta l’attenzione occidentale sull’Ucraina, dimenticandosi delle altre aree di crisi. Risorse, energie e armi, spese in una guerra in cui si è rimasti impantanati e sottratte ad altre regioni del pianeta, dove i fragili equilibri geopolitici erano già compromessi. Come il Medio Oriente, quasi ignorato dagli Stati Uniti negli ultimi anni e praticamente ‘tollerato’ dall’Unione Europea. E la questione palestinese irresponsabilmente accantonata.
Il think tank di geopolitica e strategia ‘Stratfor’, ieri ha pubblicato un report, sulla possibilità che la guerra scoppi anche tra il sud del Libano è l’Alta Galilea. Con la fragorosa entrata in campo di quell’Hezbollah ormai diventato la longa manus di Teheran. Se poi il cerchio si dovesse chiudere su tre fronti, con un eventuale assalto sincronizzato della Jihad Islamica in Cisgiordania. E qui entra in crisi il mondo unipolare che pretendeva l’America. Una volta, quando il barometro, in Medio Oriente, segnava burrasca, si chiamava Mosca, per cercare di calmare gli animi. La Russia non era ‘buona d’animo’, ma aveva argomenti che potevano interessare tutti i contendenti.
Il paradosso è che dopo l’ennesimo fallimento di Biden, la settimana prossima Abu Mazen, il Presidente del poco di Palestina che le è concesso di esistere, andrà a Mosca a parlare con Putin.