La poesia scomparsa e la modernità obbediente

Metti la mano
sulla mia fronte
come se fosse
mia la tua mano

Fammi la guardia
come chi uccide,
come se fosse
tua la mia vita.

Amami,
come se fosse bene,
come il mio cuore
fosse il tuo cuore.

Da qualche tempo la poesia albeggia nel mio cuore, mi rincorre nuda e pura, gettando nel cuore dei fiori, come ricordi e silenzi da conservare in una scatoletta di legno. La cosa più vicina all’idea di libertà, parafrasando Velimir Chlebnikov, un modo per dare al cielo del tu.

Ecco, la poesia che apre queste riflessioni non è però di Chlebnikov, straordinario poeta russo che si riesce a trovare in libreria curato e tradotto da Paolo Nori con un libro di culto edito da Quodlibet intitolato: ”Quarantasette poesie facili e una difficile”. La poesia, metti la mano sulla mia fronte come se fosse mia la tua mano, sublime, è di Attila Jozsef, grandissimo poeta ungherese che ogni tanto nomino. Un indagatore di stelle che si interroga su chi potrà spazzare la tristezza, su chi pianterà giardini nei nostri occhi e chi nella nostra anima sveglierà l’anima.

Già, la poesia parla dell’anima all’anima. Sfugge dai luoghi comuni e non riecheggia, ma somiglia a un soffio di vento che scompiglia parole e certezze, crea enigmi e getta una luce obliqua sull’eternità.

Oggi è così, poco mi importa degli scalcinati della politica e dei signori che intendono colonizzare tutto il colonizzabile partendo proprio dalla distruzione di ogni anelito di libertà, dalla bellezza percepita come moto dell’anima, come spiritualità, ricchezza immateriale che non si può possedere ma solo godere senza tendere la mano per afferrarla, farla propria, reciderla, comprimerla, banalizzarla arricchendosi.

Se diamo al cielo del tu, figuriamoci che ce ne importa di signori brutali che pensano che il rispetto e la convivenza siano rette da un sistema di valori economici e non da altro.

Ma non voglio approfondire il tema dei molestatori dei luoghi spirituali, dei bibitari vestiti da gladiatori camerieri alle convention delle banche, con lunghe file e gomitate al buffet con vista sulla storia e sulla semplicità spirituale fatta chiesina. Li lascio ai loro dubbi amletici, se è possibile o meno lasciare sul sagrato i bicchieri di plastica usati, o se il pozzo possa essere un buon tavolo da apparecchiare.

Voglio solo dire che mentre esplode la sagra della volgarità, non importa se ricca o meno, i libri di Attila Jozsef, meraviglie della cultura, non sono più disponibili. Cioè, un libraio di buona cultura e non assuefatto alle pessime proposte natalizie non può più avere in vendita questo prodigio. Un tempo esistevano questi libri. Oggi no. Vi dovete cuccare i Vespa e i Gramellini e scegliere intellettualmente ogni tipo di apericena et similia.

Già sento le vocine dei paraculetti di ogni parrocchia, tutte croci d’oro inconsapevoli al collo e cravattine, affermare che i tempi sono cambiati, la modernità implica una fruizione culturale diversa. Che poi la poesia è sopravvalutata, così come la spiritualità. E dell’anima non si sa proprio che uso farne, i mercati non ne possiedono. E si vive perfettamente senza tutte queste seghe esistenziali ed etiche.

Giusto. Proprio seguendo questa strada lastricata di obbedienza e conformismo siamo arrivati a questo punto di svolta così orrido. Un punto in cui l’ignoranza, non la grazia, è benedetta e redditizia. Non tanto per gli ignoranti che non hanno idea di che cosa ci sia fuori dalla loro caverna, per quelli che grazie all’ignoranza, che si è fatta struttura culturale, dominano le nostre vite. Che siccome sono le nostre vite bisogna darsi da fare per difenderle.

Quanta schiena dritta, disciplina di libertà e bellezza nella poesia che ci occorre. Quanta piatta obbedienza nella modernità mediocre e priva di passione.

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