Cerchiamo nella poesia un suono divino, un soffio di bellezza, forse un sollievo; la poesia può essere lama di coltello e portiamo addosso più cicatrici che tatuaggi. Le parole si spezzano come pane e sgorgano dalla pietra, sanno prenderci per mano e svegliare il lato profondo del nostro addormentarci per circostanze culturali. Laddove le circostanze culturali si sono prese la politica, la città, i risparmi teneri della nostra coscienza, le ricchezze dolci della vita, la speranza. Lasciandoci camminare attoniti su una strada di macerie, riconoscendo a ogni passo una sconfitta, paure rimosse, ideologie in frantumi e rabbia.
Le circostanze culturali che abitiamo sono spettacolarizzate e rese superficie mediatica di società. Sono allarmi, dolori, felicità per interposta necessità. Realtà opacizzata dallo scintillare della comunicazione. È questo il pianto delle notti dell’anima che non finiscono mai.
Diciamo poesia. Perché amiamo le letture clandestine, la forza magica delle parole che schiudono leggerezza profonda. E perché poeticamente ci svuotiamo gli occhi dall’inutilità delle circostanze culturali. Quelle che impediscono il dialogo, sezionano le idee, le segano di distinguo, di ciò che si può dire e ciò che non si può dire, le spezzettano in modo che sia impossibile qualunque etica del discorso. In modo che sopravviva solamente l’ascolto passivo.
Amiamo quindi la poesia che solleva l’animo e ci impedisce l’assuefazione. Amiamo anche la filosofia che ci consente di mettere insieme idee, di ragionare fuori dallo spazio ottuso della chat e riflettere liberamente su ciò che siamo, su ciò che siamo diventati e sulla perfidia del tempo. Sottraendolo alla cronaca nera, all’ipocrisia della narrazione storica che comincia ogni giorno e che prima non deve esistere: la storia scomparsa, che diventa arena mediatica e ci impedisce di ricordare ciò che era ieri per capire nel contemporaneo ciò che sarebbe meglio fosse nel futuro.
La poesia e la filosofia. Il mondo delle parole che si schiudono e delle idee che rendono fertile il terreno delle nostre vite. Che costruiscono spazi di utopia. Senza per forza arrenderci a una resa incondizionata. Una bruttura che ci spinge all’accettazione di tutto ciò che non ha niente a che fare con la poesia, con la bellezza, con la semplicità dell’esistenza, con le idee, con il futuro dei nostri figli.
Una bruttura che si chiama guerra, repressione, ingiustizia sociale, diseguaglianza, razzismo, devastazione ambientale. La bruttura di un sistema che è fallito e sta finendo, e finendo ci travolge.
La resistenza delle idee. Lasciandoci come unica speranza la resistenza delle idee, la forza delle parole che saranno semi di domani, la certezza che nei secoli a venire qualcuno racconterà questa storia con uno sguardo diverso. E servirà chi ha resistito e non ha chiamato la notte giorno, non ha acceso fuochi per spegnere il buio. Chi ha saputo abitare il margine, non cedendo alle lusinghe di una finzione scenica che ottenebra le menti.
Sapendo di non sapere a che punto è la notte.