
Padrone di casa e ospite chiave secondo la nota Usa, «i due governi si sono detti fiduciosi, che il vertice di quest’anno contribuirà a creare un consenso sulle politiche economiche per affrontare le principali sfide globali, anche attraverso la trasformazione delle istituzioni finanziarie internazionali». Cioè, è stato messo al centro dei discorsi uno dei temi che, per i diplomatici del Dipartimento di Stato, sono diventati un vero chiodo fisso. A Washington temono che la Cina e altri Brics, come il Brasile, bypassino il Fondo monetario internazionale e la Banca mondiale. Se prestano loro i soldi ai Paesi poveri, allora l’Occidente perde una forte arma di pressione. Meglio fare le cose «secondo l’ordine internazionale prestabilito».
Modi ha per ora ascoltato col dovuto garbo del padrone di casa, salvo poi presentare le sue controproposte in separata sede. Perché, ormai appare chiaro, il G20 come vertice plurale è di fatto morto, ridotto ad una comparsata per far vedere che alcuni Paesi (e diversi politici) esistono ancora, anche se solo per la stampa di casa. I veri incontri ‘produttivi’ sono i meeting bilaterali, che si tengono in qualche stanza appartata, ben lontani da occhi e orecchie indiscreti. Me torniamo ai ‘veri Grandi’, che sui problemi che incombono sul mondo ne sono in larga parte responsabili.
L’assenza del presidente cinese, quasi certa sino alla vigilia, è stata forse uno sgarbo, studiato di proposito, nel braccio di ferro che Stati Uniti e Cina hanno intrapreso per il dominio nell’Indo-Pacifico? Le tensioni certamente esistono, ricatti e contro-ricatti, che prima o dopo dovranno essere forzatamente stemperati. Quasi sicuramente, in autunno, al vertice Asia-Pacifico, sulla cooperazione economica, che si farà a San Francisco. Per ora le asce di guerra restano, dunque, sotterrate. Mentre, ancora sussurrato, emerge il motivo per cui Xi ha rifiutato di andare in India.
Sgarbi urticanti alla iper sensibilità nazionalistiche anche se apparentemente di poco conto. La Cina ha pubblicato una mappa che mostra lo Stato nord-orientale dell’Arunachal Pradesh e l’altopiano dell’Aksai Chin raffigurati come se fossero territori appartenenti a Pechino, e l’India ha protestato violentemente. Ma non è finita qui. Perché, a quanto pare, la mappa incriminata pare che abbia dato una interpretazione geografica troppo ‘di parte’ anche del Mar cinese meridionale. Insomma, nel minestrone di meridiani e paralleli, cucinato a dovere sotto la supervisione del Ministero degli Esteri di Pechino, isole e penisole che apparterrebbero a Filippine e Malesia, si sono ritrovate sotto la bandiera rossa del colosso asiatico. Suscitando, ovviamente, ulteriori proteste, che si sono immediatamente levate da Manila e da Kuala Lumpur.
Il contenzioso indo-cinese, che in qualche modo richiama anche quello tra Delhi e il Pakistan per il Kashmir, è un affare stagionato. Che in passato ha già causato scontri sanguinosi. Stiamo parlando di una striscia di confine contesa, la cosiddetta «Linea di controllo effettivo», assolutamente non ben delimitata, che corre per 3440 km. lungo l’Himalaya. Un’eredità del colonialismo predatorio occidentale, che dopo avere spremuto per bene tutte le risorse che c’erano da sfruttare, se n’è andato lasciando dietro di sé le macerie. E torna ora alla carica, sembra quasi un grottesco paradosso, per impartire alle popolazioni e ai Paesi locali lezioni di buon governo. E di ‘buona economia’ attraverso i messaggi veicolati dal G20. Una strategia, quella di America ed Europa, che non sempre però fila così liscia.
Questa volta, la ripartenza di un eventuale dialogo con la Cina o la possibilità di esercitare pressioni concentriche su Xi Jinping, è stata vanificata dall’incidente diplomatico con gli indiani. Che, per la verità, già era venuto a galla in Sudafrica, durante l’ultima conferenza generale dei Brics. In quell’occasione, si era pensato a divergenze sui criteri di allargamento dell’organizzazione dei ‘non allineati’. Ma poi, lentamente, sono emersi i veri motivi dell’attrito. Oggi, come sostiene la BBC «la Cina afferma di considerare l’intero Arunachal Pradesh come suo territorio, definendolo Tibet Meridionale. Un’affermazione che l’India respinge fermamente. Delhi, a sua volta, rivendica l’altopiano Aksai Chin, che invece è controllato da Pechino. I rapporti tra i due Paesi sono peggiorati a partire dal 2020, quando le loro truppe sono state coinvolte in uno scontro mortale nella valle di Galwan, in Ladakh». Con queste premesse, il G20, al di là di tutto quello che può sostenere la diplomazia occidentale, nasce già monco.
Strategicamente, gli Stati Uniti non hanno le risorse per mantenere la loro geopolitica del ‘double standard’. Si stanno svenando in Ucraina (137 miliardi di dollari finora) e cominciano ad avere seri problemi col contenimento cinese nell’Indo-Pacifico: costa troppo. In questo caso, la guerra condotta da Biden è molto più dispendiosa ed è difficilmente quantificabile, perché tocca nervi scoperti, come quello della bilancia commerciale. Così diventa difficile sfruttare il G20 per fare terra economica bruciata attorno alla Cina, perché l’incendio si estende fatalmente a tutti gli altri Paesi. La sostituzione della catena globale di approvvigionamento, per cercare di isolare la Cina, non è un gioco di prestigio, che possa dare risultati con un colpo di bacchetta magica. Ci vorranno molti anni.
E nel frattempo il ‘disaccoppiamento’ tanto invocato da Biden sta lavorando anche contro di lui. E soprattutto, per quello che ci interessa, contro l’Europa. Dove non abbondano leader che abbiano lo spessore e la spina dorsale, per resistere ai diktat di scelte geopolitiche imposti dalla Casa Bianca. Il G20 non dovrebbe rappresentare un’occasione per costruire ‘alleanze contro’. L’interdipendenza dei mercati e dei sistemi internazionali, alla fine vince sempre e sconfigge gli egoismi dei politici.
L’onestà impone, specie nelle grandi e moderne democrazie industriali, che scelte ‘risolutive’, che impegnano soprattutto il futuro delle nuove generazioni, siano largamente condivise. E non decise da pochi sprovveduti nel chiuso dei Palazzi del potere.