L’Istituto per l’Economia e la Pace (Institute for Economics and Peace) produce il Global Peace Index. L’Indice della Pace Globale (GPI) è un tentativo di classificare gli stati e le regioni in base a fattori che ne determinino lo stato di pacificità, o meglio l’attitudine di un determinato paese a essere considerato pacifico. L’indice su base annuale è sviluppato dall’Institute for Economics and Peace in collaborazione con un équipe di esperti di pace da istituti e da think tank su dati forniti e rielaborati dall’Economist Intelligence Unit, società di ricerca che fornisce analisi sulla gestione di stati e aziende. La lista è stata pubblicata per la prima volta nel maggio 2007 e in seguito ogni maggio o giugno successivo. Si ritiene sia il primo studio di classificazione di stati secondo ‘tassi di pacificità’.
Le morti per conflitti globali sono aumentate del 96% a 238.000
L’Ucraina ha registrato il maggiore deterioramento, scendendo di 14 posizioni al 157esimo posto
Tra i pochi quotidiani nazionali in Italia a prestare attenzione al ‘Peace Index’, il quotidiano dei vescovi Avvenire, e non è una scusa per chi l’attenzione la rivolge altrove. Angela Napoletano da Londra è invece attenta e ci avverte che sono sempre più numerose le guerre che si combattono oggi nel mondo. «E pure più logoranti perché ‘invincibili’. Nessuno perde, nessuno vince». Il Global Peace Index pubblicato a Londra, vede l’Islanda in testa, tra le nazioni più al riparo dal rischio di un conflitto insieme a Danimarca, Irlanda, Nuova Zelanda e Austria, ma sono i Paesi in coda alla strana classifica a dover far paura al mondo: l’Afghanistan seguito da Yemen, Siria, Sud Sudan e Repubblica democratica del Congo come assaggio.
Lo studio 2022 è stato condotto su 163 Paesi, rappresentativi del 99,7% della popolazione mondiale. Decisamente complessivo. 23 gli indicatori qualitativi e quantitativi presi in considerazione. Ha misurato, per esempio, l’instabilità politica, le relazioni con i vicini, gli sfollati interni, l’accesso alle armi e il tasso di polizia. I risultati dell’analisi, condensati in un rapporto di 98 pagine, mettono a fuoco una realtà difficile.
I governi coinvolti in qualche forma di guerra, ora, sono 91. Nel 2008, quindici anni fa, erano 58. Lo stesso per le vittime che l’anno scorso, secondo i calcoli dell’istituto, sono state 238mila. La stima più alta dal genocidio in Ruanda del 1994. È l’internazionalizzazione del conflitto? La guerra tra Russia e Ucraina ha contribuito ad aggravare lo scenario ma il dossier segnala che la pace perde colpi in modo continuo da quindici anni a questa parte. Nonostante la maggior parte dei Paesi (fatta eccezione per Cina, Stati Uniti e India) stia riducendo il ruolo degli eserciti.
I livelli di tensione sono cresciuti in 79 Paesi tra cui Myanmar, Israele e Sudafrica. Aumenta, inevitabile, anche il numero delle persone uccise. In più passaggi il dossier sottolinea che i morti della guerra in Ucraina non sono quanti quelli mietuti in Etiopia (più di 100mila nel conflitto del Tigrai), valore che eclissa il picco registrato durante la guerra siriana.
Lievita anche l’impatto economico della violenza. L’anno scorso, gli scontri armati hanno mandato in fumo, in totale, 17,5 trilioni di dollari, il 13% del Pil globale. «Dati come questo dovrebbero bastare a scoraggiare anche solo l’idea di imbattersi in uno scontro armato». Si tratta di un fardello economico sempre più pesante», considera il direttore della ricerca, Thomas Morgan.
Altro ‘dettaglio’ da suggerire a Mosca, a Kiev e alla Nato: «Le guerre sono cambiate si combattono tra più parti e con tecnologia militare sempre più sofisticata. Per questo sono diventate per lo più impossibili da vincere».