Cosa ci fanno i militari italiani in Kosovo 24 anni dopo le bombe Nato

Breve storia della ‘Kosovo Force’ Nato che fece il suo ingresso nel paese come ‘forza militare di pace’ dopo averlo ‘liberato’ dalle truppe jugoslave di casa sommerse di bombe, nel 1999. Con simpatie diversificate per etnia e precedente bersaglio. ‘Kfor’ la sigla meno direttamente Nato alla conversione in forza di pace, o meglio, di interposizione tra odi e tensione che 24 anni dopo non sembrano affatto superati.

Odio etnico e provocazioni

«Ieri alcuni soldati italiani e ungheresi che fanno parte di un contingente NATO chiamato KFOR sono stati feriti durante una manifestazione di protesta a Zvecan, in Kosovo. L’operazione KFOR è attiva in Kosovo dal 12 giugno del 1999, iniziò dopo la conclusione dell’azione militare della NATO contro la Repubblica Federale di Jugoslavia di Slobodan Milošević», la sintesi asettica da agenzia che riposta il Post. Per memoria meno ‘neutrale’, quei tre mesi di bombardamento nel cuore dell’Europa, definiti anche ‘interferenza umanitaria’, furono la prima vera e massiccia ‘guerra calda’ dopo decenni di ‘Guerra fredda’, preceduta solo da alcune incursioni aeree Usa su Sarajevo nel 1995 per imporre l’armistizio di Dayton.

Sempre nel racconto semi scolastico

Il Kosovo si trova tra Serbia, Montenegro, Albania e Macedonia ed è grande un po’ più dell’Abruzzo. È il paese più giovane d’Europa e le sei stelle che si vedono sulla sua bandiera rappresentano i sei gruppi etnici che lo abitano: gli albanesi, che sono più del 90 per cento della popolazione, e poi i serbi, i turchi, i gorani, i rom e i bosniaci musulmani. Gli scontri da allora a oggi, il reale esercizio del comando tra la maggioranza albanese che ha il numero e la forza, e la ex forza politica slava del vecchio potere jugoslavo, con  le ritorsioni nel quotidiano. Nel 1999 l’intervento militare della NATO in Kosovo venne giustificato con rilevanti forzature informative, per porre fine alla campagna di oppressione, pulizia etnica e violenze portata avanti dai serbi contro la popolazione di origine albanese. 24 anni dopo la situazione risulta semplicemente rovesciata senza sostanziali progressi verso il superamento del passato. Ma anche senza sensibilizzazione stampa.

Da terroristi a patrioti

A partire dal 1996 il movimento armato militare di separatisti albanesi UçK (Ushtria çlirimtare e Kosoves),sino ad allora per la Nato e gli Usa compreso tra le ‘organizzazioni terroristiche’, vienne riqualificato come movimento patriottico e sostenuto in maniera più o meno aperta soprattutto da parte statunitense, protagonista di una serie di azioni di guerriglia, arrivando anche a controllare intere zone del territorio kosovaro. Il 28 febbraio del 1998 l’UçK uccise alcuni ufficiali della polizia serba causando la ritorsione della polizia di Milošević, che lanciò un’offensiva con mezzi pesanti contro numerosi villaggi della Drenica, al centro del paese. Altri scontri armati con decine di vittime a Racak. Forzature e inganni delle parti in guerra con complicità giornalistiche, hanno via via favorito la disponibilità dell’opinione pubblica occidentale e italiana a condividere o a non opporsi quella che è stata la prima vera guerra in casa europea dopo quella mondiale.

Il 24 marzo 1999 le bombe Nato sulla Jugoslavia

il 23 marzo del 1999 il Segretario Generale della NATO Javier Solana diede inizio alle operazioni militari contro la Serbia, senza alcun mandato del Consiglio di Sicurezza dell’ONU. Le ragioni umanitarie dell’intervento furono più volte ribadite sia dalla NATO che dai governi degli stati membri, e contestate da molti altri. Di fatto, la notte del 24 su Belgrado suonarono nuovamente le sirene di attacco aereo dopo quelle per le bombe dei nazisti nel 1944. L’allora presidente del Consiglio italiano, Massimo D’Alema, alla Camera dei deputati: «Il mio giudizio è che l’intervento militare si è reso necessario e inevitabile», disse.

E diede l’autorizzazione all’uso dello spazio aereo italiano per le missioni della NATO mettendo a disposizione, per il conflitto, aerei militari e 19 basi che furono usate per far decollare gli aerei, per la logistica, per la copertura radar oppure per le informazioni meteorologiche. Gli aerei militari parteciparono direttamente ai bombardamenti.

Nato a comando Usa diventa d’attacco

Il ruolo della NATO in un conflitto esterno ai confini dell’alleanza fu dibattuto allora e dopo: chi lo ritenne fondamentale per difendere la popolazione kosovara e per destituire Milošević, e chi lo giudicò una forzatura unilaterale e responsabile di una escalation nelle violenze, oltre che causa di estese perdite civili tra la popolazione serba. Molto discusso fu anche il ruolo del cosiddetto ‘fattore CNN’, cioè il peso che ebbero i media nel giustificare e rendere legittimo l’intervento militare (rinvio all’archivio di Remocontro sulla strage di Racak e ai Lazzaro che camminano). Con l’intervento in Kosovo la NATO fondò la sua nuova strategia che stiamo vivendo oggi nella crisi Ucraina: trasformazione dell’alleanza da difensiva a organizzazione politica armata operativa anche su territori esterni a quelli dei Paesi dell’organizzazione.

Quei tre mesi di bombe

L’operazione Allied Force della NATO cominciò la sera del 24 marzo: 80 aerei appartenenti a Canada, Francia, Gran Bretagna, Paesi Bassi, Spagna, Germania, Stati Uniti, Italia, e poi le navi da guerra statunitensi e britanniche nell’Adriatico iniziarono i bombardamenti e i lanci di missili contro la Serbia. In una prima fase vennero attaccati i radar e le installazioni per la difesa aerea a nord di Pristina e intorno a Belgrado. La seconda fase del conflitto iniziò il 27 marzo ed era diretta alla distruzione delle forze armate serbe. Il 23 aprile gli alleati NATO riuniti a Washington decisero di intensificare gli attacchi. Ebbe così inizio la terza e conclusiva fase della guerra.

Le bombe nel cuore del Paese

I bombardamenti furono diretti anche verso obiettivi non strettamente militari come centrali elettriche, ponti, acquedotti, depositi di carburante, radio e televisioni (il missile mirato sulla Tv di Belgrado che uccise 16 tecnici ed operai estranei a qualsiasi propaganda di regime). I ‘danni collaterali’ di queste terza fase furono parecchi: l’8 maggio, ‘per un errore nell’individuazione del bersaglio’, -ci viene raccontato-, venne colpita ad esempio l’ambasciata cinese a Belgrado (ricostruzione diversa sempre su Remocontro). Vi furono morti, feriti e forti polemiche nei confronti dell’inadeguatezza del sistema di intelligence statunitense. Alla fine di maggio ci furono quasi ottocento attacchi aerei. Di fronte all’aumento dei bombardamenti e alla disponibilità offerta da tutti i paesi NATO di concedere nuove basi all’esercito USA, Milosevic accettò la resa. Il 9 giugno venne sottoscritto un accordo con le Nazioni Unite. Il segretario della NATO Solana ordinò la sospensione degli attacchi e la conclusione ufficiale dell’operazione Allied force.

Gli accordi prevedevano il ritiro delle forze serbe dal Kosovo, l’inizio di una missione dell’ONU per l’amministrazione provvisoria della provincia serba con il compito di ristabilire ordine e pace, e l’ingresso a sostegno della missione di una forza militare di pace guidata dalla NATO, la Kosovo Force (KFOR).

KFOR di occupazione

Il contingente iniziale di KFOR era formato da sei brigate di fanteria, due a guida britannica, e una ciascuna da Stati Uniti, Francia, Germania e Italia. Il paese venne diviso in cinque diverse zone, ognuna affidata a uno Stato. Parallelamente all’istituzione di KFOR, il Kosovo nel 1999 passò sotto il protettorato internazionale delle Nazioni Unite, che finalmente deliberarono (risoluzione 1244) a guerra fatta. Nel tempo le forze NATO presenti in Kosovo sono state riorganizzate, sono stati costituiti nuovi gruppi e avviate nuove realtà operative. Nel periodo di massima partecipazione, il numero delle truppe KFOR ha raggiunto 50mila soldati provenienti da 39 paesi, mentre oggi in Kosovo sono presenti 27 paesi con circa 3.800 militari.

Indipendenza all’americana

Dopo essere stato amministrato per quasi dieci anni da un protettorato internazionale delle Nazioni Unite, nel 2008 il Kosovo ha dichiarato unilateralmente la propria indipendenza. Nei mesi successivi i paesi della NATO decisero di proseguire la missione, in accordo con le autorità del nuovo Stato e in collaborazione con le Nazioni Unite. L’indipendenza del Kosovo non è però riconosciuta dalle istituzioni serbe (da poco meno della metà dei Paesi Onu e non da tutti i Paesi della Stessa Ue) e tra i due paesi continuano a esserci tensioni ed episodi di violenza, come le proteste in cui sono stati feriti i militari della NATO. Le zone più a rischio sono quelle del nord, a maggioranza serba e non albanese.

Ora la Nato a difendere i serbi

Oggi, secondo il Netherlands Institute of International Relations Clingendael che si occupa di relazioni internazionali, sulla presenza della NATO in Kosovo fanno affidamento soprattutto i cittadini serbi: vedono infatti nel KFOR il principale garante della loro protezione, in particolare dopo che nel 2018 il parlamento del Kosovo, in aperta violazione degli accordi di pace e delle disposizioni Onu, approvò una legge che conferiva un mandato militare alle forze di sicurezza del Kosovo (KSF). Dalle armi leggere per operazioni di polizia e protezione civile a un vero esercito con arruolamenti esclusivi da parte albanese.

Nazionalismi marcati e contrapposti al culmine da un anno con la elezione a premier di Albin Kurti, noto anche e livello internazionale per la sua vocazione politica alla provocazione. Qualcuno di Remocontro, cercando in quel lontano passato, potrebbe trovare ancora significative interviste dell’allora giovane personaggio.

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