
Rafah refugee camp, southern Gaza Strip,
Per il premier e per la maggioranza degli ebrei israeliani (l’80 percento della popolazione) contano poco o nulla le vittime dell’operazione: una settantina di morti palestinesi, che siano militanti armati o civili inermi: bambini, donne o uomini. Al massimo morti e feriti che si aggiungono ai 28 mila contati finora nella popolazione palestinese valgono frazioni di punto a favore di chi nel mondo cerca, con poco successo, di fermare il massacro.
A partire dal presidente americano Biden, chiaramente più interessato alle sue vicende politiche che alla questione umanitaria. ‘L’uomo più potente del mondo’ è ai ferri corti con il leader di uno dei Paesi più piccoli del globo terrestre che, nelle conversazioni private dei giorni scorsi e in tre diverse conversazioni, lo avrebbe definito ‘uno str*nzo’ e, più amichevolmente, forse, ‘un ragazzo’ (che capisce poco NdR).
L’assalto di Israele a Hamas e la distruzione della striscia di Gaza andrà avanti e per quanto ne sappiamo, Biden ha avuto soltanto la ‘garanzia’ che – se non ci saranno sorprese – l’operazione finirà a marzo prima dell’inizio del Ramadan, una delle feste più importanti del mondo islamico.
Ancora un mese di bombe, devastazione e morti se non ci sarà una tregua concordata – al momento appare poco probabile – e il rilascio dei pochi ostaggi ancora in vita. Un noto annunciatore della tv israeliana è stato costretto a chiedere scusa ieri dopo aver detto che a Netanyahu farebbe piacere se fossero tutti morti per poter agire indisturbato dalle proteste quotidiane dei loro parenti e amici.
Netanyahu, come è abituato a fare, ha dato l’assalto al pubblico e ai partiti americani domenica con due interviste alla televisione. Ha difeso il progetto di sferrare l’attacco a Rafah «per smantellare Hamas come forza [militare] che controlla il territorio». «Obiettivo a portata di mano e non dobbiamo fermarci», ha insistito anche se gli analisti Usa sono convinti che sia quasi impossibile eliminare il movimento islamista.
«Biden ha riaffermato la sua opinione secondo cui un’operazione militare a Rafah non dovrebbe procedere senza un piano credibile ed eseguibile per garantire la sicurezza e il sostegno agli oltre un milione di persone che si rifugiano lì». Il capo dell’esecutivo americano, le cancellerie europee e i leader dei paesi arabi ripetono quasi ogni giorno che senza una visione del futuro, concordata con Israele, non c’è fine possibile al conflitto tra palestinesi ed ebrei (https://www.remocontro.it/2024/02/13/palestinesi-sulla-luna/).
Netanyahu, è ormai chiaro, non vuole uno Stato palestinese accanto a Israele. Una parte della sua coalizione di governo – l’estrema destra messianica – lo dice in maniera chiara e rivendica la sovranità sul territorio della Palestina che va dal Mediterraneo al fiume Giordano. Se la pressione internazionale renderà impossibile per ora tradurre in realtà il loro sogno sono pronti tutti a ricorrere a quella ambiguità costruttiva adottata dai politici israeliani del passato fin dalla nascita dello Stato. Ossia: parliamone e intanto continuiamo a costruire la nostra visione del futuro.
È dall’inizio, dal 1948, che va avanti così. Con gli USA garanti.
Due giorni dopo l’attacco di Hamas del 7 ottobre 2023, il Comitato per la pianificazione e l’edilizia distrettuale di Gerusalemme ha approvato un piano per un nuovo quartiere ebraico, Kidmat Tzion, adiacente al quartiere palestinese di Ras al Amud. L’allegato sulla sicurezza della proposta comprende direttive per una recinzione perimetrale, percorsi di pattugliamento, veicoli blindati e telecamere di sicurezza con riconoscimento facciale.
Per il quotidiano Haaretz, «ora è diventato evidente che era solo l’inizio…il governo ha fatto tutto il possibile per promuovere lo sviluppo dei quartieri ebraici nel cuore palestinese di Gerusalemme est. Per fare ciò, ha adottato misure mai viste da quando la città fu riunificata nel 1967».
Nel suo editoriale di ieri il quotidiano israeliano di sinistra sottolinea che «per compiacere le organizzazioni dei coloni e la loro provocatoria retorica – Gerusalemme è solo nostra -, il governo sta sacrificando la qualità della vita di tutti i residenti di Gerusalemme, il restante credito politico di cui gode lo Stato di Israele nel mondo e la possibilità di una soluzione negoziata per il conflitto israelo-palestinese».