
La notizia nel mare dell’imminente sversamento delle acque contaminate da trizio nel mare di fronte alla centrale ha allarmato la popolazione, ma soprattutto i pescatori. Eppure, racconta Pescali, in un vicino ristorantino di Haragama, proprietà di una famiglia di pescatori da generazioni, offrono sushimi: «Rivediamo l’incubo del 2011 quando molti di noi hanno dovuto chiudere l’attività perché i clienti avevano paura a consumare il nostro pescato» confida il capofamiglia. Al mercato del pesce di Hisanohama il responsabile della cooperativa di pescatori locale afferma che «tutti sanno che i prodotti non sono contaminati e non lo saranno neppure con lo scarico delle acque, ma l’allarmismo generato dalla stampa, soprattutto internazionale, ci rende una pessima pubblicità e già sappiamo che i nostri compratori inizieranno a guardare altrove per le loro forniture».
Il rilascio delle acque ‘triziate’ (che contengono che contengono trizio (un isotopo dell’idrogeno) rischia di vanificare gli sforzi di comunicazione svolti dalle cooperative per attestare la qualità e la sicurezza dei prodotti ittici. Ma possiamo dare loro/noi torto?
«Abbiamo paura che non servirà a nulla mostrare che per ogni pescato viene fatto uno screening della radioattività» lamenta Norio Komiyama mentre mostra l’analisi dei radionuclidi dell’ultimo test svolto. Ad oggi tutti i campioni esaminati (nel solo 2022 ne sono stati fatti svariate migliaia) hanno mostrato livelli di radioattività inferiori a 9-20 Bq/kg (il limite massimo consentito dalla legislazione giapponese è di 100 Bq/kg, ben inferiore ai 1.250 Bq/kg fissati dall’Unione Europea).
Nella Centrale di Fukushima Daiichi, il 95% del sito può essere visitato indossando abiti normali, solo con una mascherina Ffp2 e Ffp3. La zona più contestata oggi è sicuramente quella dove sorgono i 1.066 contenitori che raccolgono 1,32 milioni di metri cubi di acqua contaminata dal trizio. Dal 2013, studi e ricerche in tutto il mondo, e il trattamento ‘Advanced Liquid Processing System’. Ma Alps, dopo aver filtrato efficacemente 62 elementi radioattivi, non è riuscita a trattenere il trizio, che rimaneva quindi nelle acque.
Pochi giorni fa, il governo di Fumio Kishida, ospite al vertice Nato di Vilnius e fautore del riarmo giapponese, in difficoltà per la crisi economica e i drastici tagli alle spese sociali, ha annunciato lo sversamento delle acque al trizio nell’Oceano Pacifico alla fine dell’estate. E da subito uno secondo tsunami di legittime proteste internazionali, col primo ministro accusato di aver ceduto alle pressioni dell’industria nucleare diventandone complice.
L’operazione, secondo l’Agenzia atomica internazionale, e molti istituti oceanografici (Norvegia, Canada, Stati Uniti), non comporterebbe ‘sensibili alterazioni all’ambiente e alla fauna ittica’. Ma ‘sensibili alterazioni’ cosa vuol dire, ad esempio per chi in quel mare ci lavora una vita e per il pesce che da quel mare peschiamo e mangiamo?
L’acqua ‘triziata’ sarà diluita cento volte prima di essere convogliata in un tunnel che la rilascerà a circa un chilometro dalla costa. Secondo i calcoli degli istituti oceanografici, le acque immediatamente antistanti il rilascio non supereranno i limiti legislativi giapponesi che oggi sono già più di 10 volte inferiori rispetto a quelli dell’Unione Europea. L’intero intervento durerà poco più di trent’anni (proprio per evitare una concentrazione di trizio) durante i quali le acque antistanti le coste della centrale verranno campionate e analizzate da circa 200 laboratori del circuito Almera, gestito dall’Aiea e da altri laboratori oceanografici.
Ma proprio per quei trenta anni previsti, Greenpeace a contestare la decisione di Tokyo: avendo il trizio una ‘emivita’ (durata della concentrazione, ndr) di 12,5 anni, se le acque fossero state conservate sino al 2050, la radioattività sarebbe diminuita a tal punto da poter permettere lo sversamento in solo un paio d’anni. Le polemiche hanno attraversato anche l’Oceano in un periodo di particolare tensione tra il Giappone e i suoi vicini. Preoccupazioni sono state espresse dal Pacific Island Forum, di cui sono membri anche Australia, Nuova Zelanda e Papua Nuova Guinea, ma soprattutto da Taiwan, Cina e le due Coree.
Corea del Sud, Cina e Taiwan, i cui governi hanno contenziosi storici e territoriali con il Giappone e le cui flotte pescherecce hanno spesso avuto contrasti con la marina imperiale, ovviamente sulla questione calcano la mano. Facendoci scoprire di peggio, coperte sino a ieri da complicità incrociate. Ma i Paesi che protestano hanno a loro volta centrali nucleari lungo la costa che rilasciano trizio «e ogni reattore Pwr (Taiwan ne ha 2, la Corea 25 e la Cina 55) rilascia in media 0,027 PBq di trizio ogni anno, la stessa quantità che verrà rilasciata dallo sversamento delle acque giapponesi (pari a 0,022 Bq/anno)».
Il trizio è quindi un casus belli politico più che ambientale che le diplomazie asiatiche cercano di portare a loro vantaggio. Assieme alle paure di tutto noi al banco dei surgelati.