Lo era solo un decennio di anni fa. In questi giorni di pericolosa sovrapposizione tra le festività delle diverse religioni, il conflitto con i palestinesi ha rubato la scena alla crisi istituzionale interna israeliana. Le due questioni sono la porta girevole della quotidianità israeliana: oggi gli scontri con i palestinesi, domani le manifestazioni contro il governo Netanyahu. Ma se oggi Israele è di fronte a una seria crisi economica non è per l’incapacità di risolvere il conflitto con i palestinesi o per l’inesistenza di un interlocutore con cui fare la pace: a questo vecchio scontro l’economia israeliana si è assuefatta.
La causa è endogena, viene dal fronte interno.
In un altro studio pubblicato pochi giorni fa, la Banca centrale è convinta che se passeranno le riforme sulla giustizia avanzate dall’esecutivo, Israele perderà 13,7 miliardi di dollari l’anno per i prossimi tre anni: per cominciare. «I cambiamenti legislativi e istituzionali saranno accompagnati da un aumento del premio di rischio Paese, un impatto negativo sull’export, un declino degli investimenti interni e della domanda nei consumi».
Sarebbe la fine di quella corsa partita a inizio secolo, che dieci anni dopo aveva aperto a Israele le porte dell’Ocse e che nel 2021 aveva registrato un Pil pro capite quasi doppio rispetto all’inizio del secolo.
A garantire questo successo erano state le riforme del 2005, imposte dall’allora ministro delle Finanze Bibi Netanyahu: lo stesso che oggi, con le sue supposte riforme e gli alleati ultra-religiosi che ha scelto, ne sta minando gli effetti. Una componente importante delle riforme di Netanyahu – un master in management al MIT e un lavoro alla Boston Consulting Group – erano gli incentivi occupazionali per incoraggiare il passaggio dall’assistenza al mercato del lavoro.
In Israele è una questione importante: circa il 13% della popolazione è formata dalle comunità ultra-ortodosse sefardite e askenazite. Nel 2065 saranno quasi il 33 per cento. Il loro sistema educativo in gran parte ignora il curriculum delle scuole israeliane. I bambini sono indirizzati allo studio della religione e l’approfondimento della Torah sostituisce quello che è l’educazione superiore.
L’analisi dell’Inss, secondo il quale Israele sta consapevolmente marciando verso la stagnazione, ricorda che gli istituti ultra-ortodossi «non danno un’educazione adatta al mercato del lavoro moderno». Il risultato è che «nel 2003 il tasso d’impiego fra gli uomini ultra-ortodossi era attorno al 35%».
Grazie alle riforme di vent’anni fa, nel 2022 è salito al 53 ma resta molto lontano dai livelli occupazionali del resto degli israeliani.
Le donne, che non hanno diritto a proseguire gli studi religiosi, sono più integrate, ma svolgono lavori di basso livello e poco remunerati: «Solo circa il 20% delle ragazze e il 4 dei ragazzi» raggiungono il nostro equivalente certificato di maturità. L’hi-tech garantisce più della metà dell’export israeliano, il 45% della crescita e il 35% dell’occupazione. Ma solo il 2,5% dei lavoratori e il 4,7 delle lavoratrici sono ultra-ortodossi.
Il Pil procapite degli israeliani ebrei ‘non haredim’ (timorati di Dio) nel 2018 era di quasi 49mila dollari, quello degli arabi cittadini d’Israele di 17.627 e degli ebrei ultra-ortodossi di 15.188.
Se non ci sarà un significativo cambiamento, sostiene Inss, «il Pil procapite israeliano si ridurrà del 5%; del 10 entro il 2050». «Il processo sarà aggravato dalle previste implicazioni economiche dei mutamenti del sistema giudico», avanzati dall’attuale governo. Secondo il chief economist del ministero delle Finanze, questo comporterà un’altra riduzione dello 0,8% del Pil.
Come se non bastasse, lo stesso Netanyahu che da ministro aveva lottato contro i sussidi statali, ha previsto che nel prossimo bilancio le istituzioni educative degli ultra-ortodossi – importanti alleati del suo esecutivo – avranno un aumento del 60% dei finanziamenti statali. Senza che sia loro imposto di introdurre lo studio della matematica e dell’inglese.