Ancora una volta, dopo la clamorosa vittoria in Olanda del Partito di estrema destra e islamofobo, guidato da Geert Wilders, torneremo ad interrogarci sul populismo montante, sulle paure dell’invasione migratoria, sulle misure più efficaci per controllarla, sul dilemma fra dovere di accoglienza e protezione dei nostri concittadini più deboli, che spesso pagano il prezzo sociale più alto e raccolgono l’offerta elettorale che più li rassicura. Ma, ancora una volta, le analisi del fenomeno sono strabiche: si tende ad osservare tutto ciò che ci tocca da vicino e a non vedere tutto quanto succede altrove, all’esterno della ‘fortezza Europa’, che è poi la causa principale del fenomeno stesso.
Lampedusa è ormai entrata nella Storia d’Europa, il simbolo e il barometro della gravità del problema e dell’evoluzione delle analisi politiche. Oggi, a prescindere dai movimenti elettorali o sulla spinta di essi, tutti i governi stanno prendendo contromisure più o meno rigorose. In Francia è in discussione all’Assemblea una legge, già passata dal Senato, che introduce controlli più severi e norme più restrittive.
Costruire muri, chiudere le frontiere, ripristinare i controlli nell’area Schengen, respingere le persone nei Paesi terzi: dal Regno Unito alla Germania e all’Italia, senza dimenticare la Svezia, i Paesi membri dell’UE stanno intensificando provvedimenti dissuasivi. E all’estero dell’area Schengen si srotolano i fili spinati. Unica eccezione, il fronte ucraino, con Polonia e Germania in prima linea nell’accoglienza dei profughi, anche se qualche malumore comincia a serpeggiare. L’accoglienza emergenziale continua a crescere e si sta cronicizzando per l’andamento della guerra.
In Germania, il cancelliere Olaf Scholz ha voltato pagina nei confronti della Merkel. Cinque anni dopo il «Wir schaffen das!» (‘Ci riusciremo!’) della Cancelliera, che aprì le porte a più di un milione di rifugiati siriani, il suo successore sta tagliando i sussidi sociali, rafforzando i controlli alle frontiere e negoziando «con i principali Paesi di provenienza per stabilire accordi di rimpatrio», o addirittura «esternalizzando le richieste di asilo ai centri di accoglienza in Africa», come scrive Die Zeit.
Una svolta ideologica che non ha incontrato opposizione. In Germania anche il campo progressista ha cambiato tono. «La Germania non può permettersi di essere timida sulla questione migratoria», scrive la Süddeutsche Zeitung. Il Regno Unito (oltre 700 mila ingressi nel 2023) sta cercando di rimandare i richiedenti asilo illegali in Ruanda (anche se il progetto è stato bocciato dall’Alta Corte). Il progetto «campi in Albania» lanciato dal governo Meloni – criticato dalle nostre opposizioni – ha suscitato interesse in diversi Paesi. In Spagna, il primo ministro socialista Pedro Sánchez sta facendo pressione sul Senegal per bloccare gli arrivi alle Canarie, mentre in Danimarca un’altra socialdemocratica, Mette Frederiksen, ha cercato di attuare il ‘modello Ruanda’, come ha ricordato La Stampa.
Ma, come fa notare Foreign Policy, che riporta i risultati di uno studio britannico condotto in 12 Paesi europei. «Non ci sono prove che il recupero delle idee di estrema destra indebolisca questi stessi partiti alle urne». Lo dimostrano il risultato olandese, l’alto consenso a Giorgia Meloni e la crescita inarrestabile di Marine Le Pen in Francia, data per sicura vincitrice alle prossime elezioni europee.
D’altra parte, basterebbe osservare il panorama all’esterno della ‘fortezza europea’ che si vorrebbe blindare per comprendere quella che dovrebbe essere una banalità. Ossia che i flussi migratori non arrivano dalla luna, ma da endemiche situazioni di crisi nel Sud del Mondo: guerre, colpi di stato, carestie, emergenze climatiche sempre più drammatiche. Flussi che si alimentano secondo una disperante gerarchia di livelli di povertà fra Paesi vicini.
Il fenomeno più recente si riscontra in Tunisia: il Paese da dove provengono forti flussi migratori verso l’Europa è lo stesso Paese che espelle migranti dall’Africa sub sahariana e in cui risiedono decine di migliaia di sfollati libici.
Emblematico, ad esempio, uno studio sulla situazione di decine di migliaia di burundesi rifugiati in Tanzania a causa della situazione politica nel loro Paese, dove sono vittime di discriminazioni e violenze risalenti agli scontri etnici di decine di anni fa. La Tanzania minaccia di espellerne centomila in pochi giorni, cifra che dovrebbe fare riflettere i teorici europei dell’invasione di massa. I burundesi espulsi non andranno né in centri di accoglienza né in cerca di lavoro e non troveranno le case o i terreni in cui avevano vissuto. L’espulsione dalla Tanzania è forzata, a volte violenta e ricorrente, in quanto migliaia di burundesi sono in realtà migranti ‘pendolari’, entrati ed espulsi dalla Tanzania più volte nella loro vita.
Clayton Boeyink, ricercatore dell’Università di Edimburgo, e Stephanie Schwartz, della London School of Economics hanno analizzato la situazione in un rapporto pubblicato da Foreign Policy. I ricercatori ricordano il «genocidio selettivo», del 1972 della maggioranza etnica del Burundi, composta da élite di insegnanti e uomini d’affari, perpetrato dall’esercito del Paese controllato dai Tutsi. Questo conflitto ha dato il via a guerre, crisi e sfollamenti ciclici, compresa una guerra civile nel 1993 e successivamente ai terribili massacri del 1994 in Ruanda, dove le vittime erano invece i Tutsi, vessati dall’esercito e dalle milizie Hutu.
Durante ogni crisi, centinaia di migliaia di burundesi sono fuggiti nei Paesi vicini, tra cui Tanzania, Ruanda e Repubblica Democratica del Congo (allora conosciuta come Zaire). Nel 2015, più di 250.000 burundesi sono fuggiti in Tanzania.
«Mentre la Tanzania ha avuto una politica di accoglienza dei rifugiati per decenni, gli anni ’90 sono stati un periodo turbolento in tutto il continente, a causa di guerre e sfollamenti su larga scala, di politiche di aggiustamento strutturale che hanno eroso le risorse e le capacità dello Stato e dell’avvento di nuove democrazie, che hanno introdotto politiche elettorali spesso caratterizzate dalla xenofobia nei confronti di chi è percepito come estraneo», scrivono i ricercatori. Intanto sono state adottate politiche di accampamento restrittive e militarizzate, vietando ai rifugiati la libertà di movimento e il diritto di lavorare al di fuori dei campi designati.
Nonostante gli avvertimenti dell’UNHCR che la situazione non era sicura per il ritorno dei rifugiati burundesi, nel 2019, un accordo bilaterale tra Burundi e Tanzania mostrava che i Paesi avevano concordato di organizzare il rimpatrio. «L’insicurezza nei campi è diventata una preoccupazione crescente, poiché i rifugiati sono stati soggetti a un aumento delle vessazioni da parte della polizia, sia all’interno che all’esterno dei campi, e al deterioramento delle condizioni di vita. Le organizzazioni per i diritti umani affermano che i rifugiati hanno dovuto affrontare torture nelle stazioni di polizia, ricatti ed estorsioni per ottenere pagamenti da amici e familiari e deportazioni forzate da parte degli agenti di sicurezza del Burundi. Oggi, a causa della mancanza di finanziamenti internazionali, le razioni alimentari sono state ridotte fino a soddisfare solo il 50% del fabbisogno alimentare dei rifugiati, causando un’estrema indigenza nei campi».
Dovremmo infine ricordare che nel 2000, moltissimi Paesi hanno firmato il ‘Protocollo di Palermo’ per prevenire e punire la tratta di persone. Ma a distanza di due decenni, la piaga della tratta di esseri umani persiste. Si stima che 25 milioni di persone in tutto il mondo siano vittime del lavoro forzato e dello sfruttamento sessuale forzato. La maggior parte delle vittime sono donne e ragazze. La tratta di esseri umani è un fenomeno globale, praticato da gruppi estremisti e anche da alcuni governi. Il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha riconosciuto che la tratta di esseri umani alimenta conflitti, instabilità e terrorismo.
I lavoratori migranti rappresentano il 25% delle vittime del lavoro forzato a livello globale. C’è infine l’emergenza climatica a mettere in circolo altri flussi migratori.
In queste settimane, come racconta il New York Times, forti piogge e inondazioni hanno ucciso decine di persone e sfollato centinaia di migliaia in tutta l’Africa orientale, da Etiopia, Kenya, Somalia, Burundi, Sudan, Sud Sudan e l’Uganda. Oltre tre milioni di persone in una regione che stava già soffrendo la peggiore siccità degli ultimi quarant’anni. Le condizioni di siccità, aggravate dai cambiamenti climatici, hanno decimato raccolti e bestiame, lasciando milioni di persone affamate e malnutrite e uccidendo centinaia di bambini. Secondo le agenzie umanitarie, le inondazioni hanno danneggiato case, ponti e scuole e hanno messo in guardia da un aumento delle epidemie, tra cui colera e malaria.