Ad un Tiro di schioppo

‘Cronache bizantine’ 

a supplire la vacanza di Antonio Cipriani col suo Polemos. Spezzoni di vecchie cronache di guerre quasi dimenticate. Una ‘supplenza’ dove potrete trovare anche qualche spunto di riflessione legato alla nostra pessima attualità. Anche perché la stagione era esattamente questa, stesso torrido luglio-agosto in un Libano infuocato dal clima e dall’attacco israeliano.
Oltre ad una utile memoria di altre guerre ed altre aggressioni meno enfatizzate rispetto all’attualità, ma analogamente crudeli e inique.

A un Tiro di schioppo

L’abracadabra, la formula magica del giornalismo, si concentra nella frase ‘Già che sei lì’. L’attacco israeliano alle postazioni hezbollah in Libano nel 2006 ha coinciso col mio pre insediamento nella nuova sede Rai d’Istanbul. Questione di contratti d’affitto, di linee telefoniche, di burocrazia. Quella guerra non era mia. Poi l’abracadabra formulato da Roma. ‘Già che sei lì’, inteso in Turchia, ‘potresti fare un salto in Siria a vedere cosa accade, fosse mai che la guerra si estenda?’. Da Istanbul a Damasco è soltanto qualche ora di volo. Da Damasco a Beirut è soltanto mezza giornata di macchina se i ponti ci sono ancora, ‘Gia che sei lì’. Lo stesso tra Beirut e Tiro, nel sud dei bombardamenti continui. Già che sei lì. E lì, già che c’ero, sono rimasto sino ad esaurimento della guerra, tornando due mesi dopo ad Istanbul.
Quella del Libano è stata la mia guerra fuori tempo massimo. La guerra della tarda età, come un figlio avuto da sessantenne. Del resto fu Platone a ricordarci che ‘solo i morti hanno visto la fine della guerra’. Quella guerra non programmata, lontana dai miei Balcani, s’è così caricata di significati particolari. Ho amato il Libano, vittima dell’ultima guerra giornalistica della mia vita, e quindi ne racconto alcuni accenni.

Mix di vecchie cronache nate nella concitazione di pezzi per telegiornali estivi distratti. Assaggio degli almeno 100 pezzi andati in onda su telegiornali e radio Rai. Quanto è rimasto nella memoria del computer o qualche foglietto sopravvissuto tra le tasche di una trasferta che hai sempre e soltanto voglia di centrifugare subito nella lavatrice dei ricordi brutti. Candeggina a scolorire i colori troppo abbaglianti di sofferenze inammissibili.

La memoria che resta è dedicata ad una manciata d’amici libanesi: l’interprete e autista Sead; i pescatori, contrabbandieri ed altro del porticciolo di Tiro; padre Ignazio, di cui ignoro il nome in arabo, prete melchita dagli umani furori e dal perdono cristiano che esercitava con sforzo di fede. All’enigmatica Marie Helenè, anima armena, cuore libanese, diffidenza da studi italiani.

Ovviamente le immagini che qui mancano dovete immaginarle voi

Tiro (Tg1)
A Tiro puoi scegliere le rovine che preferisci. La memoria delle conquiste imperiali romane sulla terra dei fenici, storia di civiltà lontane. Oppure le rovine dell’attualità, come storia dell’inciviltà che incombe sul mondo.
Lo studio del sindaco di Tiro, sembra il retrobottega di un farmacista disordinato tra scatole di medicine da distribuire. Abu Zafer Husseini va per le spicce: una città di 110 mila abitanti, 90 mila profughi arrivati dalle campagne e ora, non più di 15 mila ostaggi della guerra rimasti. Poca acqua, poco cibo, poche medicine. Tiro, ci dice, è una città assediata.
Fuori del municipio-dispensario, l’evidenza di mille emergenze. Una città che soffoca fra i cumuli dei rifiuti, dove la mancanza di carburanti blocca anche i servizi d’emergenza. La croce rossa scarica la sola nave d’aiuti arrivata qui, e ci offre i numeri dell’apocalisse.
Almeno un quarto della popolazione libanese è oggi profuga. Come se da voi, 15 milioni d’italiani fossero stati costretti ad abbandonare le loro case”.
Una città assediata, una città che muore. Il tempo della real-politik ingessata dalla prepotenza dei più forti non coincide mai con il tempo avaro dato alla sopravvivenza di chi è soltanto debole e indifeso.

Sul fronte del Litani (Tg3)
La guerra che penetra tra le piantagioni di banani e gli agrumeti alla foce di un piccolo corso d’acqua, il fiume Litani, l’antico Leonte. Il Piave libanese, lo chiamiamo noi, facendo riferimento agli obiettivi militari israeliani e alla resistenza libanese.
Siamo ancora in Libano, dicono le carte militari, fra i resti di uno dei cento ponti che, col Cedro del Libano dipinto sulle macerie, diventano simbolo di un’identità nazionale che questa guerra sta cementando. Troppi conti politici e probabilmente anche militari sbagliati, in questa tragedia, a leggere ciò che sta accadendo dalla parte di chi subisce.
Bombardamenti ininterrotti da settimane su tutto il sud del Libano, ormai a ridosso dell’abitato di Tiro, la grande città libanese del sud ridotta oggi al 15 mila abitanti e profughi impauriti.
Il continuo lancio di katiuscia hezbollah che filmiamo nel cielo, dice di una capacità di risposta militare ostinata e continua. Sul piano umanitario la situazione diventa disperata soprattutto nei villaggi isolati sulle colline che portano verso il confine israeliano.

Guerra (Tg2)
Un continuo, incessante susseguirsi d’esplosioni, bombe aeree ad alto potenziale, cannonate e missili dal mare, mentre qualche scia di razzo katiuscia hezbollah perpetua la rincorsa al peggio. Quelle case sono la periferia sud di Tiro, e sono da 24 ore la trincea irraggiungibile di una guerra che sembra riservare al suo atto finale, fosse vero il cessate il fuoco promesso, l’esaurirsi di tutto l’armamentario di distruzione che le parti in guerra hanno nei loro arsenali.
Sette vittime civili, tra cui una donna e i suoi tre bambini, sepolti tra le macerie. Un ospedale coinvolto nell’incendio di un deposito di carburante, a tre passi da qui con i feriti intossicati dal fumo e privi d’ogni soccorso.
Ormai, chi è colpito, muore sul posto, ci spiega amaro il medico libanese, reso a sua volta impotente dall’impossibilità di portare soccorso. Attraverso “Medici senza frontiere” a Tiro, un parziale tentativo di bilancio. 245 morti soltanto quelli raccolti qui a Tiro, almeno mille feriti, e la scoperta ancora da compiere dell’orrore nei villaggi isolati, dove le macerie sono ormai il solo cimitero possibile.

Il buongiorno (Tg1)
Il buongiorno per Tiro arriva all’alba con due missili che colpiscono un palazzo nel cuore della città. La banca e lo studio della Radio Hezbollah, deserti da tempo.
Una sveglia di soprassalto per scoprire che la città è ormai priva anche di luce. Linea elettrica colpita assieme all’acquedotto principale. Per Tiro è la giornata peggiore della guerra. Provate ad immaginare voi, come potreste vivere senza energia, acqua e cibo.
La percezione diffusa tra la gente che la potenza militare israeliana stia trovando nel sud del Libano il suo Vietnam, non consola chi oggi va a raccogliere i pacchi d’emergenza donati dalla chiesa cristiano maronita, ma non sa come mai potrà cucinare quel cibo.
All’accampamento della stampa internazionale, i legionari francesi dell’Onu condividono brandine da spiaggia ed impotenza, mentre due navi da guerra forse israeliane ci guardano malevole dal largo.

Panico (Tg3)
Un intero ospedale in fiamme, i suoi ricoverati soffocati dal fumo, i medici che invocano inutilmente soccorso. Noi siamo di fronte a loro, vediamo una parte di quanto sta accadendo, ma in mezzo c’è una trincea invalicabile di bombe e di katiuscia hezbollah. Bombardamento israeliano di questa mattina all’alba. Colpito un centro commerciale ed un distributore di carburante, Esplodono le cisterne con i gas della benzina che non c’è più. Un secondo raid aereo colpisce ambulanze e soccorritori. Tutti i veicoli in movimento sono considerati bersaglio. Il fuoco, non contrastato, si mangia tutto. Sette vittime libanesi da questa mattina, tra cui una donna e i suoi tre figli sepolti dalle macerie, mentre i telefoni dell’ospedale ormai tacciono.

Alì (Tg1)
Il solo ospedale attrezzato del sud del Libano, ma potrebbe benissimo essere un ospedale israeliano a Haifa. Le guerre, rispetto a chi le subisce, non distinguono tra ragioni e torti o tra buoni e cattivi. Il prodotto delle guerre non cambia mai, ed è quello che vedete. Cos’altro accade tra le popolazioni isolate nei villaggi sotto bombardamento è l’inimmaginabile dell’orrore.
Il sud del Libano è al collasso sanitario, ci spiega il dottor Ahmad Mrue, che in questi giorni ha operato più di 450 feriti gravi. Feriti invisibili, data la terribile esperienza della precedente guerra del 1982, quando quei feriti, filmati dalle televisioni, furono poi presi dai militari israeliani nei loro letti e portati non si sa dove.
Il 19 per cento dei colpiti dalla guerra sono bambini e il 32 per cento sono donne, è la statistica sul campo. Poi i malati cronici e i neonati. La fine e l’inizio della vita. Alì, bellissimo, è nato prematuro sette giorni fa per lo choc da bombardamenti subito dalla madre. Per fortuna sta bene, anche se chiede giustamente di tornare nelle braccia del giovane papà. Quale vita stiamo regalando noi adulti ad Ali?

Cessate il fuoco (Tg3)
I simulacri di un esercito nazionale libanese, nell’attesa dell’arrivo di truppe internazionali garanti per l’una e l’altra parte. Controllo a vista da parte israeliana, da quelle postazioni, dove il sud del Libano si confonde con il nord di Galilea. Nuova geografia per il contingente di pace italiano atteso con grande speranza dalla gente del posto che difende le proprie macerie, sognandole come futura casa.
Questa era la cittadina d’Aita Asciab. Sino ad un mese e mezzo fa, fiorente centro di commercio e coltivazioni di tabacco. Ora una sorta di Vukovar di memoria balcanica, sui confini insanguinati dei due fronti di guerra. Difficile trovare una casa risparmiata dalle bombe. Il prezzo pagato alla sua geografia di frontiera e alla storia di villaggio sciita, che nelle semplificazioni di una guerra, diventa sinonimo di Hezbollah e d’Iran.
Partire da questo massimo del nulla che rimane, per capire la sfida che attende la comunità internazionale in questo sud del Libano, dove il massimo che rimane in piedi è un cumulo d’odio.

Domenica di festa (Tg1)
Prima domenica in pausa di guerra, e l’esigua minoranza cristiana del sud del Libano si ritrova, a ranghi quasi completi nella cattedrale cristiano melchita di Tiro. Vestiti della domenica, come si diceva una volta. Religiosità che diventa identità. Quella delle minoranze religiose, nel sud del Libano, è uno dei passaggi chiave per capire cosa l’occidente si troverà ad affrontare nella missione internazionale qui.
Anche gli sciiti, e quindi gli hezbollah, sono minoranza nel mare islamico arabo a larghissima maggioranza sunnita. Minoranza maltrattata, racconta la storia libanese, con Teheran che su questo gioca le sue strategie.
Il sud del Libano, lo vedete, è la loro rivincita legata non soltanto all’uso delle armi. In questi villaggi travolti dalla guerra, hezbollah è una parola che indica non soltanto lotta armata, ma anche la sola presenza organizzata di solidarismo e di parvenza di stato. Con il fantasma di Teheran, che qui invia non solo armi ma soldi, a riempire un vuoto che altri avrebbero dovuto colmare.

Il silenzio (Tg3)
Potrebbe assomigliare ad una demolizione controllata di qualche eco mostro, soltanto che qui a Tiro, l’esplosivo necessario arriva via missile. Periferia nord della città, decretata da stamani campo di battaglia vero e proprio, dove ogni presenza in movimento sarà considerata ostile. Tutti nel bersaglio, insomma, in un inasprirsi di bombardamenti e incursioni di commando israeliani via terra che sembrano l’annuncio del gran finale.
Dal fiume Litani a sud, dalla sfida degli ultimi soccorsi arrivati ieri, all’impossibile d’oggi, ogni movimento di veicoli è interdetto. Preavviso a firma dello Stato d’Israele, con volantini lanciati dagli aerei in cui si avverte la popolazione assediata e noi giornalisti in particolare. Nessuna protezione sperata dalla scritta TV sul tetto delle auto, visto che, affermano a Gerusalemme, vetture simili sarebbero utilizzate dagli Hezbollah per trasportare i loro razzi. Testimoni assediati e ora appiedati, insomma, con l’intento forse di trasformarci nelle famose tre scimmiette, che non sentono, non vedono, non parlano e soprattutto non fanno vedere.

L’effetto Milosevic (Tg1)
Quello che vi raccontiamo è il sud del Libano fortunato, a dire che tutto è relativo. Quello che ancora campa, anche se prigioniero nella sua città. Tutti a piedi, come nelle lontane domeniche italiane di un’altra guerra mediorientale che aveva chiuso i rubinetti del petrolio. Qui a Tiro i rubinetti chiusi sono quelli della vita: il cibo, le medicine e la speranza.
Verdura vecchia di giorni. L’ultima. E poi?
Poi io vado con la resistenza libanese e sparo”.
La questione di chi sia l’aggredito e chi l’aggressore, preme anche ad Israele, che dopo l’avvertimento di ieri a noi giornalisti, oggi lancia messaggi politici che piovono dal cielo alternati alle bombe.
“Tutta colpa degli Hezbollah che colpiscono Israele.
Tutta colpa del loro leader Nasrallà che non vuole trattare.
Riga finale. Il Libano è stato distrutto dagli Hezbollah”.
Non cogliamo grandi consensi attorno. Rifacendoci all’esperienza personale, verrebbe da pensare ad una sorta di “Effetto Milosevic”. Le bombe dall’esterno, tendono a rafforzare i despoti e i predicatori di violenza.
“I conti con la nostra politica interna, potremo cominciare a farli soltanto quando il Libano sarà nuovamente libero”. Nell’ultima bottega aperta, chi vende cerca di rubare sul peso. La terribile guerra del sopravvivere.

Gli eroi (Tg2)
E’ l’eroismo senza sottolineature ed è per questo che attorno ai vigili del fuoco si raccoglie ovunque tanta simpatia. In arabo, i pompieri (bella parola antica) si chiamano Taware, ed anche qui a Tiro, non si atteggiano certo a Rambo. Il comandante è amareggiato.
Siamo prigionieri dentro Tiro”.
Tanti interventi? “Migliaia”.
Tante vittime? “Non le so più contare”.
La sintesi di chi ha dentro un racconto infinito.
Chiamate urgenti di soccorso a cui non possono far fronte per le strade distrutte, e i mezzi danneggiati da bombe che colpiscono i soccorritori.
Lo spazio del sorriso attorno a Jasmina, pappagallo portafortuna, e scatta un’altra emergenza.
Dal cielo, oltre alle bombe, altri messaggi da Israele. Dopo le minacce di ieri che hanno appiedato anche la colonia giornalistica prigioniera, oggi Gerusalemme parla di politica.
Tutta colpa degli Hezbollah, quello che sta accadendo, dicono quei volantini. Sono gli Hezbollah che stanno distruggendo il Libano.
Affermazione audace che assomiglia molto al tentativo di ridurre l’ostilità della popolazione, come premessa ad un ipotetico arrivo israeliano fra queste strade di Tiro.

L’alba (Tg1)
L’alba dal molo del porto di Tiro, quando gli ultimi elicotteri israeliani lasciano la città dopo due ore di combattimenti. Anche il canto del muezzin risulta strozzato. Insegui il fumo degli incendi e di fronte al campo profughi palestinesi, pieno centro storico, il fuoco si mangia ciò che resta del blindato libanese che aveva tentato di difendere col suo risibile cannoncino il suo paese. Il primo caduto in combattimento fra le forze armate libanesi in questa guerra.
Ma il campo di battaglia è chiuso tra questi palazzi di periferia e i bananeti da cui sarebbero partiti gli ultimi razzi contro Israele. Qui sono atterrati gli elicotteri, qui si è combattuto ferocemente. In quest’appartamento insanguinato si sarebbero nascosti tre capi hezbollah che Gerusalemme afferma di avere ucciso. A caro prezzo. 1 morto e 7 feriti tra i commandos, e tante pozze di sangue a segnare i caduti hezbollah dai corpi scomparsi.
Sul lungomare l’ultima stazione di quest’alba dolorosa: un motorino e i proiettili dei piccoli missili che lo hanno colpito. E’ tutto ciò che resta dei due giovani arabi che erano in sella.
E’ pieno giorno infine quando Tiro scopre d’essere ora completamente isolata dal mondo, senza più alcuna via di fuga. In una trappola che, dai bollettini dei bombardamenti d’oggi, si sta stringendo.

Genova per noi (Tg3)
Nessuna apertura umanitaria per Tiro e per il sud del Libano. Questa nave è il ricordo dell’ultimo soccorso. Attracco vietato ad un’altra nave con medicine e viveri. La regia della guerra non prevede in palinsesto la pietà. Un ospedale che da una settimana accoglie soltanto morti. È il segno della fine. Periferia nord di Tiro, ed è già prima linea.
Ospedale che non cura, perché nessun ferito può più essere raggiunto. Un ospedale le cui corsie diventano rifugio per gli sfollati degli undici caseggiati popolari qui accanto spianati dalle bombe due giorni fa. Un ospedale con meno di tre giorni di riserva d’energia, con pochi anestetici ed il cibo che riescono a procurarsi giorno per giorno andando al mercato.
Il dottor Ibrahim Faras, ha imparato il mestiere di chirurgo d’emergenza al San Martino di Genova, e di guerre, nel suo paese, ne ha già vissuto cinque. Nessuna, ci dice, come questa. Le piaghe aperte? Aborti per choc da bombardamento, e poi le ustioni. Strane ustioni. “La pelle che si sfalda al solo toccarla. Niente di simile a quanto che avevo studiato e visto prima. Più simile agli effetti di una sostanza chimica che a quelli delle fiamme”.

Giubbotti eroici e magliette sudate (Tg1)
Se l’intensificarsi dei bombardamenti, come da manuale militare, anticipa l’avvio di un’azione militare di terra, tutto lascia pensare che siamo alla vigilia. Bombe su bombe lungo tutto il fronte sud, ormai a poche centinaia di metri dall’abitato di Tiro.
Qui siamo a quella che dovrebbe diventare l’ultima trincea, in territorio libanese, per l’esercito israeliano. Le rovine di un ponte, uno dei cento, fra i banani e gli agrumeti alla foce del fiume Litani, indicato dal ministro della difesa israeliano come linea di sicurezza da raggiungere all’interno del Libano.
Partita drammatica che si arricchisce ogni giorno di più, di nuove incognite. Dei duecentomila abitanti dell’intera area sud del Libano, qui a Tito ne resistono 15 mila, mentre dai villaggi distrutti arrivano soltanto notizie di nuovi morti. Vie di fuga, con strade bombardate e assenza di carburanti, nessuna.
Lo stesso circo dell’informazione internazionale, tra giubbotti eroici e magliette sudate più sincere, s’interroga. Via d’uscita da qui, quando mai sarà, verso Beirut o verso Tel Aviv?

Ferragosto (Tg1)
Il blindato dei caschi blu Onu che non si districa fra le strette vie del porto vecchio di Tiro. Immagine dai troppi significati in queste ore. I pescatori a terra, fra indifferenza e qualche sghignazzo, li ignorano. La fiducia, nella Tiro assediata, è merce rara quanto l’acqua e il cibo. Mentre la diplomazia cerca di mettere una pezza a questa tragedia, il pescatore fa da se e rammenda i pantaloncini da bagno sdruciti.
Domenica d’agosto nel sud del Libano. Al rumore continuo dei cannoneggiamenti si sovrappone uno strano scampanio.Siamo nel quartiere cristiano, anche se di cristiani e non, qui a Tiro ne sono rimasti molto pochi, ci spiega il metropolita prima della messa.
Chiesa greco cattolica Melchita, che vuol dire la ricchezza del rito bizantino con l’obbedienza al papa di Roma. Qui dentro pesano di più le sue parole di pace, che quella della diplomazia imbalsamata, ed è almeno una speranza.
Scopriamo un prete profugo: villaggio cristiano al confine d’Israele andato in fumo. Un covo Hezbollah anche quello? “Assolutamente No. La nostra era una piccola comunità cristiana, ed i nostri vicini musulmani erano soltanto dei contadini e non dei guerriglieri”.

Il ritorno (Tg3)
Esodo e controesodo lungo la costiera libanese, ad emulare gli ingorghi stradali ferragostani d’altri tempi, e quelli dei vostri prossimi fine settimana in Italia. Intasamenti d’altro genere, da e per il sud del Libano. Lavori in corso lungo tutto quanto resta dell’autostrada Beirut-Tiro, direbbe Iso Radio, con particolare attenzione ai crateri da bomba, ai ponti crollati, ed ai tondini d’acciaio che a tradimento escono contorti dal cemento come piovre. Altri consigli, a queste persone, non ti senti di dare, salvo l’augurio di ritrovare ancora una casa dove tornare.
La vittoria celebrata è quella d’essere ancora vivi dopo un mese d’inferno. La vittoria prossima futura, molto più incerta, è quella di ritrovare la forza e gli aiuti per ricominciare.
Lo snodo chiave di tutto questo via vai, frontiera immaginata dalle truppe israeliane, e punto d’arrivo, si spera presto di truppe internazionali e d’aiuti umanitari, è oltre a questo corso d’acqua, simbolo ancora oggi concreto dell’isolamento del Sud del Libano che è stato campo di battaglia.

Epilogo (speciale Primo Piano, Tg3)
Tiro, a conoscerla prima, doveva essere stata una gran bella città. Una sorta di stratificazione d’anime, di civiltà e di popoli che hanno distillato nei secoli quel cittadino arabo molto particolare che è il libanese.
Ruderi della potenza di Roma in terra fenicia, a cui si sovrappongono quelli prodotti dalla nostra moderna insensatezza. Un mare splendido e spiagge accudite, che per un po’ s’è pensato potessero diventare una nuova Costa Azzurra mediorientale.
Tutt’attorno la coltivazioni rigogliose dei banani, degli agrumeti, del tabacco. Economia agricola fiorente grazie all’acqua fresca del Litani, prima che quel fiumiciattolo diventasse la linea del fronte su cui le truppe israeliane avrebbero voluto attestarsi in terra libanese.
Sulle colline verso sud e verso Israele, mille villaggi come questo, Cana, luogo di massacri recenti e di lontane nozze evangeliche, anche queste contese -storicamente- fra questa terra araba e la vicina Galilea. Non più nozze da celebrare ma soltanto funerali. Ora restano macerie, corpi insepolti, e le simbologie dell’odio incrociato che spiegano soltanto in parte l’enormità di quanto è accaduto.
Ogni guerra, per esperienza personale, selezione al suo centro un luogo di resistenza di vita. Nella Tiro assediata, è il vecchio porticciolo pescatori del quartiere cristiano, dove la regola è imporre le ragioni piccole ma essenziali della quotidianità. Per essere accettati qui non si parla esplicitamente di guerra. Troppe spie attorno.
Ciao Habibi”, è il saluto incrociato. Ciao amico. Per il resto valgono i gesti.
Tra i più giovani, l’istinto della tifoserie ironica per il Davide straccione che ha fermato il golia super tecnologico è evidente. Tra gli adulti prevale la consapevolezza dei conti con l’estremismo politico interno che il Libano dovrà ricominciare già da domani.
Il quartiere cristiano di Tiro è un lindo succedersi di viuzze che ruotano attorno a poche chiese. Qui l’ecumenismo è la realtà del sopravvivere e le chiese, quella cristiano libanese Maronita, la greco cattolica Melchita, la greco ortodossa, l’evangelica e protestante, hanno ben altri scismi sulla pelle dei loro fedeli con cui fare i conti.
Sfogliando il nostro diario di questi mesi di guerra, non possiamo dimenticare i volti della sofferenza che dicono molto più dei numeri.
Un quarto della popolazione libanese profuga, con moltissimi di loro che non troveranno più alcun’abitazione a cui tornare. La statistica dei medici di trincea con cui abbiamo avuto la fortuna di parlare, ci dice che il 39 per cento dei morti e dei feriti sono donne ed il 19 per cento sono bambini. La mascolinità eroica della guerra, è sempre un conto da saldare al femminile.
L’ultimo nostro racconto da Tiro lo dedichiamo ai più deboli tra i poveri. Ai bimbi non nati per aborto da bombardamento, a quelli che porteranno cicatrici sul corpo e nell’anima. Cicatrici d’odio, temiamo. Alla vecchiaia inabile, orfana d’assistenza e speranza. Un anticipo d’inferno senza la conta finale del bene e del male nel bilancio d’una vita.

 

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