
«Nel rispetto delle procedure standard del dipartimento di Giustizia, nell’interesse della sicurezza ed integrità dell’operazione, questa perquisizione è stata condotta senza un avviso pubblico e noi abbiamo accettato di collaborare». Così Bob Bauer, l’avvocato personale del presidente, ha reso noto che gli agenti dell’Fbi hanno perquisito la casa al mare di Joe Biden a Rehoboth Beach, in Delaware, nell’inchiesta sui documenti classificati. Una perquisizione, ha precisato il legale, «che viene condotta dal dipartimento di Giustizia con il pieno sostegno e collaborazione del presidente».
La notizia di ieri, che riporta la perquisizione effettuata dall’FBI in un’altra casa del Presidente Biden, pone nuovi seri interrogativi. L’indagine è stata disposta dall’Attorney General, Merrick Gerland, e riguarda la storia dei documenti classificati conservati ‘per ricordo’. Cioè, la stessa ipotesi di reato che ha già interessato Donald Trump, oggetto anche lui (e con più clamore) di un’irruzione della polizia federale a Mar-a-Lago. Un’inchiesta analoga è stata aperta anche per l’ex vice di Trump, Mike Pence, che si è autodenunciato, dicendo di avere inavvertitamente trattenuto ‘carte sensibili’. Per Biden si tratta della quarta perquisizione, dopo quelle subite al Penn-Biden Center, a Wilmington e a Rehoboth. Ma il vero problema dal punto di vista istituzionale, è che il Presidente degli Stati Uniti in carica, viene sottoposto a indagine dal Ministro della Giustizia (Garland), che lui stesso ha nominato.
Insomma, per dirla chiaramente, si configura un caso nel quale, il politicamente “controllato” (il Ministro) dovrebbe controllare, giudiziariamente, il suo “controllore” (cioè, il Presidente).
Situazione, a dir poco, scomoda, se non proprio perdente, dal punto di vista dell’opinione pubblica. Perché è già partita la campagna elettorale per la Casa Bianca 2024. Per ora la lotta è fratricida, almeno in campo Repubblicano. Ma non è che i Democratici stiano meglio, dato che sono in molti in quel partito, a non voler assolutamente sentir parlare di un secondo mandato per Joe Biden. Questa cronica incertezza in politica interna, si riflette anche su una “foreign poliicy” zigzagante e quasi inaffidabile. Una politica estera dove i cambiamenti di strategia, come quelli sull’Ucraina, seguono le paturnie umorali dello Studio Ovale. Non è, però, che la situazione domestica sia più confortante.
I fondamentali dell’economia sono buoni, ma l’inflazione resta troppo alta, rispetto alla potenza di fuoco finora sfoderata dalla Federal Reserve. C’è però la grande incognita del debito federale complessivo (un fantascientifico 31 trilioni di dollari) e quello del finanziamento del budget annuale, che comporta una revisione al rialzo del ‘tetto del deficit’. Per evitare il parziale ‘shutdown’ di diverse agenzie governative, c’è bisogno di trattare con i Repubblicani, che alle elezioni di Mid term hanno riconquistato la Camera. Ma la strada è in salita, perché gli Stati Uniti sono un Paese spaccato in due. Anzi, sarebbe il caso di dire, ‘a fratture multiple’, viste le contraddizioni e gli scontri feroci che animano la loro politica interna. E siccome la sfera politica è sempre lo specchio di una società, allora bisogna chiedersi se la crisi delle istituzioni americane, non sia, anche, l’altra faccia di un malessere sociale dilagante.
Il mito della ‘frontiera’ è svanito e, oggi, la patria di Abramo Lincoln è diventata una grande democrazia malata, in cui convivono, mischiandosi confusamente, ispirazioni idealistiche surreali e una vetusta, ma ancora avida, etica del capitalismo. Gli studi fatti dai maggiori think-thank, ci dicono che le elezioni spesso vengono vinte da chi riesce a raccogliere più fondi e donazioni. C’è una catena che lega i grandi collettori di risorse per le campagne elettorali, i network televisivi, la carta stampata e i social media. Essendo i due grandi blocchi di consenso, quello liberal e quello conservatore, abbastanza blindati, il voto viene sempre determinato dalla grande “palude di mezzo”, cioè dagli indecisi. Per questo, chi spende di più (e compare con grande frequenza) quasi sempre vince.
E per questo, paradossalmente, nella più importante democrazia del mondo, a determinare spesso i destini della società sono coloro che possono gettare, sul piatto della bilancia, più dollari. I primi sondaggi, sulle nomination per il 2024, dicono che in casa repubblicana sarà un duello Trump contro DeSantis. Mentre tra i Democratici, per intuire l’aria che si respira, il giovane Segretario ai Trasporti, Pete Buttigieg, precede addirittura Biden.
Come scrive il giornale on line “Issues and Insights”, i prossimi mesi saranno duri per l’attuale inquilino della Casa Bianca. Dovrà rispondere a molte domande, sui rapporti di suo figlio Hunter con l’Ucraina e sulle accuse, avanzate dagli avversari politici, di avere ‘favorito’ la sua carriera e i suoi affari. Così l’«anatra zoppa», come viene definito un Presidente americano con mezzo Congresso contro, rischierà la paralisi definitiva. Perché, a molti Democratici, un candidato ottuagenario, stizzoso, con problemi cognitivi e qualche scheletro nell’armadio, non piace proprio.
Così come, più di metà del Partito repubblicano, non vede l’ora di togliersi quell’ingombrante attaccabrighe di Trump dai piedi. No, probabilmente, nel 2024, vedremo facce diverse a Pennsylvania avenue. Almeno, questa è la nostra speranza.