
Damasco, Siria, dopo l’attacco israeliano di sabato
Il New York Times sostiene che l’attacco misto, di razzi e missili, condotto contro il sito dell’USAF, è stato probabilmente quello di maggior successo finora effettuato dai guerriglieri sciiti sostenuti dall’Iran. «Due missili – scrive il NYT – sono riusciti a superare i sistemi di difesa aerea della base, colpendola». Evidenti sia l’irritazione che la preoccupazione del governo Usa. Anche perché, dopo la strage di Hamas e la successiva reazione israeliana, le formazioni islamiche armate, in Siria e in Irak, hanno preso sistematicamente di mira le postazioni militari degli Stati Uniti.
Un totale di 140 attacchi negli ultimi tre mesi contro le truppe di Washington, in Irak e in Siria, ammette questa volta il Pentagono. Ed è quasi guerra.
Cosa sta accadendo realmente e perché una tale quantità di piccoli attacchi, almeno per ora. Per arrivare a cosa? Una delle tesi, sostenuta anche dal New York Times, è che, in fondo, si tratti semplicemente di atti di ritorsione. I gruppi sciiti fanno parte del cosiddetto ‘Asse della resistenza’, controllato e sponsorizzato dall’Iran. Galassia di guerriglieri armati che si muovono a comando ‘su ordine degli ayatollah’. Fanno raid per procura, la versione statunitense, riuscendo a tenere in costante allarme l’enorme (e costoso) apparato di sicurezza dei loro avversari.
«Sabato – scrive il NYT – l’Iran ha accusato Israele di avere lanciato un attacco aereo sulla capitale siriana, Damasco, che ha ucciso cinque militari di Teheran. Poco dopo, un fuoco di sbarramento di missili e razzi ha colpito la base aerea americana in Irak». Reazione indiretta sul tutore-complice di Israele? Possibile, ma, forse, la realtà è un poco più complessa di quanto possa apparire a prima vista. È vero, ad Al Asad, in pieno deserto, c’è ancora un contingente americano, anche se l’impianto è principalmente (almeno in linea teorica) gestito dall’Aeronautica di Baghdad. Ma il ‘vero problema’, probabilmente, sono gli altri soldati Usa (2.500 in Irak e 900 in Siria), rimasti ‘per lottare contro l’Isis’. Sulla carta.
Per molti osservatori, le truppe di Biden sono rimaste sul posto come ‘cane da guardia’ contro l’Iran e le sue velleità di egemonia nel Golfo Persico. Quei soldati sarebbero, al di là di tutti i litigi tra Washington e l’Arabia, la vera ‘assicurazione sulla vita’ dei regnanti sauditi e del loro potere.
Altra valutazione possibile, che l’obiettivo dichiarato di chi attacca le truppe Usa non sia tanto o soltanto la solidarietà con la Palestina, ma quello fare ritirare le truppe americane dall’Irak e dalla Siria. In Irak la questione è già un problema politico, che continua ad avvelenare il clima tra i partiti. Gli stessi gruppi sciiti si muovono ormai confusamente. Alla base, ovviamente, c’è il clamoroso fallimento della strategia ‘tripartita’ studiata all’epoca delle guerre della famiglia Bush alla Casa Bianca, come modello ideale di amministrazione dell’Irak.
La divisione tra un’area sunnita, una zona sciita e una regione curda, sarebbe all’origine di tutti i mali, perché non ha tenuto conto che ognuno di questi sistemi era già disomogeneo, e presentava al suo interno delle vistose spaccature. Così, oggi il fronte sciita è dilaniato tra il Movimento di Moqtada Al Sadr e le forze del ‘Quadro di coordinamento’ legate a Teheran. E le ultime elezioni di dicembre, dei Consigli provinciali, hanno premiato proprio gli sciiti vicini agli ayatollah, che ora continueranno ad aumentare la pressione sul governo centrale perché ottenga dalla Casa Bianca l’impegno ad andarsene. Un’operazione che, dopo la guerra di Gaza, sembra molto improbabile.
Ciò che fino a quattro mesi fa era un progetto diplomatico aperto, anche se difficilmente realizzabile nel breve periodo (il completo ritiro americano), adesso sembra proprio improponibile. A meno che non cambi qualcosa di fondamentale, come la politica estera del Dipartimento di Stato e il suo ‘decision making process’. Ma per queste cose, l’ultima parola ce l’hanno gli elettori degli Stati Uniti.