Le guerre a buoni e cattivi di maggior comodo. Vittime e crimini incrociati messi da parte

«Il telefono alle due del mattino: l’addetto alla cifra porta un telegramma appena arrivato da Belgrado. […] “Si prepara l’aggressione della Nato contro il nostro paese. Il pericolo è imminente e viene proclamato lo stato di guerra …”». Con queste parole asciutte e drammatiche Miodrag Lekic, ambasciatore jugoslavo a Roma, descrive nel suo diario le prime ore del 24 marzo 1999.

La guerra per il Kosovo (e altro da non dire)

Nel novembre 1995 a Dayton era stato raggiunto un accordo per porre fine alla guerra in Bosnia. Come scrisse il plenipotenziario americano Richard Holbroke, si erano svolte delle trattative ‘big bang’, ovvero erano stati riuniti – o meglio ‘chiusi dentro’ – i principali protagonisti della guerra (il serbo Milosevic, il bosniaco Izetbegovic e il croato Tudjman assieme ad altri rappresentati occidentali) e nell’arco di tre settimane si era giunti all’accordo. Quando invece, dopo la crisi del Kosovo, fu riunito a febbraio 1999 il vertice di Rambouillet, apparve subito evidente che lo stesso modello non era utilizzabile.
Una prima fase di trattative, che aveva come obiettivo il riconoscimento di una sostanziale autonomia per il Kosovo, fallì per l’opposizione di entrambi i contendenti: da parte albanese si continuò infatti a parlare di indipendenza, mentre da parte serba risultava inaccettabile l’interposizione di forze Nato. Alla ripresa nel mese di marzo il segretario di stato americano Madeleine Albright convinse gli albanesi ad accettare l’autonomia, ma non i serbi riguardo il ruolo della Nato.
La face successiva fu quindi l’intervento militare che durò settantotto giorni e si articolò soprattutto in raid aerei che misero in ginocchio la Serbia. Paradossalmente, nonostante il governo di Milosevic fosse manifestamente in crisi da tempo e il consenso nei suoi confronti nettamente in calo, gli attacchi aerei invece lo rinforzarono. Solo nel mese di giugno, dopo l’ingresso via terra di forze Nato in Kosovo, furono sottoscritti gli accordi di Kunanovo che sancivano il ritiro serbo dalla regione.

Campagna aerea e bombe mai buone

Gli effetti della campagna aerea sulla Serbia furono semplicemente devastanti. L’operazione «Allied force», alla quale presero parte più di mille aerei e una trentina di navi dell’Alleanza Atlantica, provocò almeno tremila vittime: come in tutte le guerre contemporanee in maggioranza furono civili e si stima infatti che solo un terzo fossero militari. Notevoli inoltre i danni alle infrastrutture, dalle centrali elettriche agli acquedotti, dai ponti alle strade. Non mancarono episodi molto controversi ancora oggi che allargarono il solco tra i belligeranti: basti accennare alla distruzione della sede televisiva di Belgrado (23 aprile, 16 vittime) o ai gravissimi danni subiti dall’ambasciata della Repubblica Popolare Cinese che l’8 maggio provocarono tre vittime.
Per nulla edificante fu anche la vicenda del treno carico di civili colpito da un aereo in cui risultò che il filmato era stato ‘manipolato’ nel tentativo di sostenere la versione dell’incidente e non dell’attacco deliberato (12 aprile, 55 vittime). Non mancarono nemmeno episodi di ‘fuoco amico’, come quando furono colpiti sette guerriglieri kosovari (22 maggio), o altri casi in cui furono semplici profughi come accadde il 14 aprile.
Particolarmente dolorosi infine altri due episodi, a tutt’oggi senza colpevoli: il 31 maggio un’esplosione nell’ospedale di Surdulica provocò la morte di oltre venti persone, mentre il 21, nel corso del bombardamento delle carceri di Pristina, si erano avute un centinaio di vittime. Del tutto sproporzionate le perdite dell’Alleanza (esclusivamente statunitensi), anche se – probabilmente per circostanze fortuite – i serbi abbatterono un modernissimo caccia Nighthawk, uno dei primi ‘aerei invisibili’.

Lekic e il ruolo dell’Italia

Quando scoppiò la guerra per il Kosovo il governo di Belgrado interruppe le relazioni diplomatiche con tutti i paesi della Nato, ad eccezione della Grecia e dell’Italia. Indubbiamente con il paese ellenico esisteva una lunga e tradizionale amicizia basata sulla ‘cuginanza’ religiosa e sulla comune lotta di liberazione dagli ottomani, ma anche su un atteggiamento simile nei confronti della questione albanese e del crescente nazionalismo che si andava manifestando.
Diverso invece il caso italiano, a cominciare dal fatto che nessuno ‘invitò’ – come si dice in linguaggio diplomatico – l’ambasciatore jugoslavo Lekic a rientrare a Belgrado. Eppure gli aerei della Nato partivano dall’Italia, che forse mai come allora confermò la sua caratteristica di maggiore ‘portaerei’ del Mediterraneo, mentre l’ambasciatore rimase al suo posto continuando l’attività di osservatore, analista e negoziatore che si recava spesso al ministero degli esteri per ascoltare ed essere ascoltato.
Grazie al diario tenuto da Lekic emerge un quadro dell’Italia molto sfaccettato, polarizzato tra la solidarietà all’Alleanza che indubbiamente ci fu e un sincero desiderio di pace, ma risaltano anche le figure di un variegato mondo politico nostrano. Nonostante la sua situazione particolare e personale, cominciava a preoccuparlo una possibile ‘balcanizzazione’ anche dell’Occidente, un modo di ragionare pericoloso che tendeva a separare con un taglio netto torti e ragione, non solo dannoso per la diplomazia, ma a volte anche per il buon senso.

 

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