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Le accuse della procura generale – genocidio, omicidio e lesioni gravi sono rivolte contro la presidente Dina Boluarte, il presidente del Consiglio dei ministri Alberto Otarola, il ministro degli Interni Victor Rojas e il ministro della Difesa Jorge Chavez. Diverse associazioni in difesa dei diritti umani sostengono che le forze dell’ordine, in queste settimane di proteste, avrebbero sparato contro i manifestanti; mentre l’esercito ribatte e dice che i rivoltosi hanno utilizzato armi e scagliato esplosivi rudimentali fabbricati in casa contro i soldati. Negli scontri è stato ucciso un poliziotto, Jose Luis Soncco: è bruciato vivo nella sua auto di pattuglia.
Ma l’ex presidente Pedro Castillo sta dalla parte di chi protesta e di chi spara. In un tweet ha scritto che «le persone morte nel tentativo di difendere il Paese dalla dittatura golpista» saranno ricordate per sempre nella storia del Perù. In realtà, a provocare il caos in cui il Paese è sprofondato da più di un mese è stato proprio il tentativo di Castillo, il 7 dicembre, di effettuare un colpo di Stato e sciogliere il parlamento che stava per votargli la sfiducia. Castillo è stato arrestato e condannato a 18 mesi di carcere e al suo posto è subentrata Dina Boluarte, sua vicepresidente.
Ma i sostenitori di Castillo non riconoscono la nuova presidente e il suo governo. Per questo hanno invaso le strade con azioni di guerriglia urbana che l’intervento duro dei soldati e i coprifuoco non sono riusciti a fermare. Come a nulla è servita la decisione del parlamento di anticipare dal 2026 al 2024 le elezioni presidenziali e quelle politiche. Poca cosa rispetto alla richieste dei manifestanti che chiedevano la rinuncia della presidente Dina Boluarte, lo scioglimento del Congresso –«que se vayan todos»-, elezioni già quest’anno, un’assemblea costituente e la liberazione di castillo.
Le forze ‘cosiddette di sicurezza’ -l’accusa popolare-, «hanno fatto fuoco come fosse una guerra». Spesso puntando direttamente alla testa, come ha confermato il direttore dell’ospedale di Puno Jorge Sotomayor. «Mai più morti», aveva garantito la presidente all’inizio dell’anno, quando le vittime erano 28. Ed ecco invece, alla ripresa delle manifestazioni dopo la pausa natalizia, il massacro più grave da quando sono iniziate le proteste lo scorso 7 dicembre con il ministro del’Interno Víctor Rojas che ha cercato di giustificare le forze di polizia.
Ma c’è anche qualche autorità territoriale, il governatore di Puno, che si è invece schierato contro la campagna politica e mediatica diretta a ricondurre le proteste a una matrice terrorista (il cosiddetto ‘terruqueo’, la pratica cara alle destre, di dare del terrorista a chiunque dissenta), decretando tre giorni di lutto in tutto il dipartimento.Intanto, nel settimo giorno consecutivo di mobilitazione, si registrano blocchi stradali e proteste in diverse parti del paese, e soprattutto a Puno, Arequipa, Cusco e Tacna.
Il prossimo passo, hanno annunciato i manifestanti, sarà una marcia verso Lima, una nuova ‘Marcha de los cuatro suyos’, le quattro regioni che costituivano il ‘Tahuantinsuyo’, l’impero inca. Cioè da ogni angolo del Perù, come quella che si era svolta nel 2000 contro Fujimori.
Il governo propone un ‘Accordo nazionale’, per trovare una soluzione alla crisi, ma la convocazione è stata disertata sia dalla Conafrep (Coordinadora Nacional de Frentes Regionales) sia dalla Cgtp (Confederación General de Trabajadores), secondo cui non si può parlare di un accordo di pace mentre «il popolo peruviano è massacrato, torturato e assassinato per il solo fatto di esercitare il suo diritto alla protesta, né ci potrà accordare finché non verranno convocate nuove elezioni e non verrà consultato il popolo su un’Assemblea costituente».
Ma esiste il rischio di peggiorare la già pessima Costituzione attuale, denuncia Claudia Fanti sul Manifesto. Costituzione ultra neoliberista che rendendo intoccabili gli investimenti stranieri, è alla radice di quelle tensioni tra esecutivo e legislativo che hanno già provocato la caduta di cinque presidenti in sette anni.