Propaganda di guerra e censura, in forme diverse, sono sempre esistite. Nel corso della Prima guerra mondiale divennero indispensabili per il morale dell’opinione pubblica e soprattutto per i giornali: attraverso un ufficio appositamente costituto ogni esercito belligerante emanava quotidianamente un bollettino contenente le principali notizie sull’andamento delle operazioni. Comprensibilmente non si poteva dire tutto, ma nemmeno tacere completamente: gli eventi erano così soggetti a piccole manipolazioni che, di volta in volta, aumentavano o diminuivano la portata di un singolo episodio. Questo non significava mentire sempre spudoratamente e in maniera sistematica, ma solo praticare qualche ‘ritocco’.
Nelle memorie di un alto ufficiale – pubblicate nel dopoguerra – si ironizza sul modo in cui erano annunciate ad esempio la cattura di prigionieri o i bombardamenti di artiglieria. «Duello di artiglierie» poteva significare che per ore e ore si erano scambiate cannonate da tutte le parti, mentre la cattura di prigionieri imponeva una sorta di lettura tra le righe: ‘alcuni’ significava un paio; ‘diversi’ tre o quattro e ’numerosi’ almeno cinque. Ma non sempre andò così.
Il già citato dizionario alla voce ‘rotta’ scrive: « … sconfitta di grave entità, seguita dalla dispersione delle forze … » e Caporetto, nonostante alla fine la miracolosa resistenza sul Piave, in parte lo fu. Dai bollettini ufficiali si ricava però un quadro leggermente diverso, né la parola ‘rotta’ è mai menzionata. In un primo controverso bollettino redatto a caldo, all’indomani dell’attacco, furono subito individuati dei responsabili: la frase originale «La mancata resistenza di reparti […] vilmente ritiratisi senza combattere» fu infatti modificata e nella versione successiva, diffusa dal governo – e non dal Comando Supremo –, si parlò invece di «deficiente resistenza», ovvero ‘scarsa’.
Per conoscere tuttavia la verità su quanto realmente accaduto in quella notte dell’ottobre 1917 ci è voluto almeno mezzo secolo, perché i primi libri scritti per ricostruire la vicenda con una certa obiettività uscirono a partire solo dalla metà degli anni Sessanta del secolo scorso. Ultimo di questa grande biblioteca dedicata alla sfortunata battaglia è un volume di pochi anni addietro che – con certosina pazienza – ha riesumato dagli archivi migliaia di testimonianze personali che disegnano un quadro molto più complesso e ben diverso dalle prime notizie.
Ad onore del vero a ritoccare i bollettini di guerra non fu solo l’Italia: casi simili a quello di Caporetto avvennero un po’ dappertutto. I francesi, nella prima fase dell’attacco tedesco nell’agosto 1914, furono così avari di notizie sulla guerra per l’opinione pubblica che un deputato dell’Assemblea nazionale, avendo ricevuto una telefonata da un elettore del proprio collegio nel nord della Francia, si precipitò in preda al terrore dal ministro della guerra dicendo che i tedeschi erano ormai a Parigi. Solo in Germania però l’arte della propaganda sul fronte interno raggiunse livelli di vera e propria perfezione.
A gestire la politica di comunicazione dell’alto comando tedesco, ivi compresi i rapporti con tutta la stampa (soprattutto quella neutrale) e il mondo politico, fu lo stesso capo dei servizi segreti militari, ovvero l’ufficio IIIB dello stato maggiore. Nonostante le intense attività di spionaggio vere e proprie su tutti i fronti e altre responsabilità, l’ufficiale tedesco condusse ogni giorno per quattro anni riunioni con alte personalità, giornalisti e politici fino alla fine della guerra. Il risultato fu che il fronte interno in Germana si mantenne saldo oltre ogni aspettativa, ma dall’ottobre 1918, da quando cioè le notizie comunicate dal fronte divennero più esplicite, all’improvviso si verificò il crollo inatteso.