
Mezzo milione di lavoratori britannici in strada a Londra e nelle principali città e protestare contro il governo e chiedere aumenti salariali. La descrizione di una scena vista molte volte a cavallo tra gli anni ’70 e ’80, quando il Regno Unito fu scosso da ondate di scioperi che, inizialmente, favorirono l’ascesa al potere di Margaret Thatcher, per poi rivolgersi contro di lei in protesta contro la deindustrializzazione e la chiusura delle miniere di carbone. Ai giorni nostri, la Gran Bretagna, da alcuni mesi a questa parte, sta attraversando la più pesante ondata di scioperi da parte di dipendenti pubblici da oltre un decennio. Proteste che sono solo la punta dell’iceberg di una situazione sempre più critica per l’economia, scrive ISPI nel suo report.
«I vari nodi – dal fallimento di Brexit a un sistema economico industriale sempre meno produttivo – stanno venendo al pettine, mettendo a rischio la ripresa di breve periodo e la capacità di Londra di continuare a essere un leader economico globale. Come si è arrivati fino a questo punto e quali sono le prospettive future?»
Come sempre, a gennaio il Fondo Monetario Internazionale pubblica l’aggiornamento periodico delle prospettive di crescita economica a livello globale. Quest’anno, in molti si sono sentiti rassicurati per il miglioramento delle valutazioni FMI, con stime di crescita del Pil riviste al rialzo rispetto ai timori di una recessione globale di pochi mesi fa. Meglio per molti, ma non tutti: le stime per il Regno Unito sono state infatti ritoccate al ribasso di 0,9 punti percentuali rispetto al ‘World Economic Outlook’ di ottobre, con una previsione di recessione dello 0,6% per il 2023. Cifre che sembrano ancora più pesanti se si pensa che, sempre secondo il Fondo Monetario, la Gran Bretagna sarà l’unico Paese del G20 a subire una contrazione del Pil: una sorte che potrebbe non toccare nemmeno alla Russia (nonostante nove round di sanzioni e un crescente isolamento internazionale).
Come si spiega questa ‘performance’ tanto negativa? Secondo il FMI si tratta soprattutto delle conseguenze della brusca frenata imposta dalla nuova fase di politiche economiche restrittive. Londra si trova in una situazione congiunturale in parte diversa rispetto alle altre economie occidentali, in cui la spesa pubblica non è (per il momento) andata incontro a una sostanziale contrazione. Al contrario, il premier britannico Rishi Sunak non si è potuto sottrarre alla decisione di pesanti tagli alla spesa pubblica per rimediare ai danni fatti da Liz Truss, che lo aveva preceduto a Downing Street per soli 40 giorni.
Il governo più breve della storia del Paese, ma durato a sufficienza per portare la Gran Bretagna sull’orlo di una crisi finanziaria sull’onda delle promesse di tagli alle tasse che sarebbero stati insostenibili.
I segnali della tempesta, del resto, c’erano tutti. A partire dalla difficile gestione del post-Brexit, ma includendo anche il malcontento dei lavoratori del settore pubblico, da tempo sottopagati e ora messi in ginocchio dall’inflazione che ha colpito il Regno Unito in maniera ancor più pesante che nel resto d’Europa proprio a causa dei problemi legati all’uscita dal mercato unico. In particolare, non si può non citare un aumento dei costi di trasporto, oltre che un’ingente carenza di forza lavoro nei settori della logistica e dei servizi commerciali. Ecco perché è dall’autunno che si susseguono in tutto il Paese ondate di scioperi da parte dei lavoratori di diverse categorie del ‘civil service’, il settore pubblico britannico: i dipendenti del settore sanitario (National Health Service), insegnanti, autisti del trasporto pubblico, vigili del fuoco, dipendenti delle poste, ferrovieri. Milioni di persone che protestano contro il Governo per gli aumenti di stipendio giudicati assolutamente insufficienti a contrastare il carovita (4-5% in più in busta paga a fronte di un’inflazione che è da diversi mesi in doppia cifra).
I problemi dell’economia britannica non vanno cercati esclusivamente in scelte più o meno recenti che si sono poi rivelate sbagliate, dalla decisione di uscire dal Mercato unico europeo, al velleitario ‘mini-budget’ di Liz Truss. Le ragioni dell’attuale situazione sono anche strutturali e di lungo periodo, in particolar modo nella perdita di produttività accusata a partire dalla crisi finanziaria globale del 2008-2009. «Se nei quindici anni precedenti la produttività era cresciuta mediamente di oltre il 2% annuo, in quelli successivi la crescita è stata di appena lo 0,5% soprattutto a causa di una carenza di investimenti, sia nel settore pubblico che nel privato». Perdita di competitività ulteriormente aggravata dall’uscita del Regno Unito dall’UE, che per una sfortunata fatalità si è sovrapposta ai fattori esterni di crisi che negli ultimi tre anni hanno portato al rallentamento dell’economia globale.
Un ulteriore colpo all’economia britannica potrebbe arrivare dalla ‘guerra dei sussidi’ lanciata dagli Stati Uniti attraverso l’Inflation Reduction Act: se l’Unione europea dovesse rispondere con gli stessi strumenti (non è ancora chiaro come funzionerà l’annunciato Green Deal Industrial Plan) anziché trovare un accordo con gli USA per la definizione di regole comuni, Londra potrebbe trovarsi ancor più isolata (oltre alla Manica anche sull’Atlantico). Il ministro delle Finanze Jeremy Hunt non ha nascosto la preoccupazione per il rischio di barriere protezionistiche tra le due sponde dell’Atlantico. Almeno a parole, Hunt ha confermato il ruolo del Regno Unito come difensore del ‘libero scambio’ e ha promesso imminenti contromisure alla politica protezionistica di Biden. Nessun sussidii alle imprese nei settori green tech ma imprecisati provvedimenti per migliorare il ‘business environment’, il contesto imprenditoriale britannico e renderlo più attrattivo per gli investimenti esteri.
Insomma, ‘contro agevolazioni’ per attrarre ad esempio, i vecchi investimenti europei fatti fuggire con l’Exit di troppa arroganza. «Facile a dirsi meno a farsi, dal momento che l’elevata terziarizzazione dell’economia britannica non può tradursi in una rapida re-industrializzazione».
Guerra in Ucraina e il sostegno britannico pesante. «Se l’economia britannica è in sofferenza, il ruolo di Londra come potenza autorevole in politica estera non sembra invece essere in discussione», valuta ISPI. L’attivismo a livello internazionale di Rishi Sunak è in continuità con quanto fatto negli ultimi anni da Boris Johnson: lo dimostra la recentissima visita di Volodymyr Zelensky a Londra, dove ha incassato una prima apertura al possibile invio di aerei da combattimento all’Ucraina. Regno Unito in prima linea nello stimolare un impegno più deciso degli Stati europei nella NATO.
Questo ruolo particolarmente attivo sulla scena globale non può però nascondere le debolezze interne della Gran Bretagna, testimoniate dalla crisi politica interna continua. Martedì 7 febbraio il rimpasto per impiazzare il presidente del Partito Conservatore Nadhim Zahawi, colpito dalle accuse di evasione fiscale. Con il premier Sunak che insegue e cambia ministri tra una delusione e l’altra. «Ma la Gran Bretagna avrebbe bisogno di riforme più profonde per ridare slancio a un sistema che negli ultimi quindici anni ha perso competitività e ha commesso il grave errore di chiudersi all’Europa, suo principale partner commerciale», la conclusione del severo rapporto ISPI.
I dubbi su Brexit cominciano a farsi largo, ma un ripensamento sembra decisamente prematuro per una marcia indietro che richiederebbe comunque molti anni. Nel frattempo, il rischio è che l’economia britannica vada avanti per lungo tempo con il freno a mano tirato, perdendo terreno rispetto al resto dell’Occidente.