
Si infiamma la polemica negli Stati Uniti, dopo che gli avvocati del presidente Joe Biden hanno notificato il ritrovamento nella sua residenza privata a Wilmington in Delaware di un secondo gruppo di documenti classificati non riconsegnati all’Archivio Nazionale al termine del mandato da vicepresidente. Le prime carte, sempre riservate e sempre relative all’epoca in cui Biden ricopriva il ruolo di vice di Barack Obama, erano state trovate a novembre in un ufficio da lui utilizzato in un centro studi a Washington. Ma l’intera vicenda è stata resa nota soltanto questa settimana, appena pochi giorni prima del secondo ritrovamento.
La scoperta – che sta provocando non poco imbarazzo all’attuale amministrazione – è stata resa nota dalla Casa Bianca poco prima che il presidente commentasse in conferenza stampa la notizia del calo dell’inflazione, certo di maggior interesse pubblico.
I suoi avvocati, si legge in una nota, hanno scoperto tra le sue carte personali e politiche, nella libreria e nel garage di casa «un piccolo numero di altri documenti dell’amministrazione Obama-Biden con segni di classificazione». In entrambi i casi, si tratta di documenti classificati del governo degli Stati Uniti e dunque coperti da vincolo di segretezza. Biden non avrebbe potuto tenerli con sé in un ufficio privato dopo aver lasciato la carica di vicepresidente, poiché la legge impone la restituzione e archiviazione degli atti che sono nella disponibilità del presidente finché è in carica, ma che diventano proprietà dello Stato allo scadere del mandato.
Per chiarire la vicenda, il procuratore generale Merrick Garland ha annunciato la nomina di un procuratore speciale. Si tratta di Rob Hur, ex procuratore del Maryland, nominato da Donald Trump e che ha lasciato l’incarico quando l’ex presidente non è stato rieletto nel 2020. Al momento, Garland svolge sua attività in uno studio legale di Washington. «Questa scelta – ha spiegato il responsabile della Giustizia americana – sottolinea l’impegno del dipartimento a perseguire sia l’indipendenza, sia l’obbligo di rispondere su questioni particolarmente delicate, prendendo decisioni incontestabili, guidate solo dai fatti e dalla legge».
La scelta di avvalersi di un consulente esterno è chiara: Garland è stato nominato da Biden e, se dovesse condurre le indagini, potrebbe trovarsi in un conflitto di interessi. Allo stesso modo, a novembre, il procuratore generale aveva nominato Jack Smith come consulente speciale per indagare sull’ex presidente Trump quando questi ha annunciato la sua candidatura per il 2024, rendendolo un avversario politico di Biden e creando un potenziale conflitto di interessi.
La scelta del Dipartimento – che spesso si avvale di consulenti esterni nei casi in cui è ravvisabile un possibile conflitto di interessi – punta a stemperare le polemiche innescate dai Repubblicani che, dopo aver difeso Donald Trump per aver portato nella sua residenza privata centinaia di file presidenziali, ora chiedono chiarimenti, accusando l’amministrazione democratica di ‘doppi standard’ nella gestione di due vicende simili. Trump ha subìto perquisizioni nella sua villa di Mar-a-Lago, in Florida, dove deteneva documenti segreti.
Ora l’ex presidente invoca un “raid” degli agenti federali nelle abitazioni private di Biden. E il neo Speaker della Camera faticosamente eletto, Kevin McCarthy, che in estate aveva attaccato l’Fbi per aver sequestrato i documenti nel resort di Trump, ha chiesto l’apertura di un’indagine da parte del Congresso. A ben guardare però, se le due vicende si assomigliano, ci sono anche profonde differenze, rileva Gianluca Pastori in una nota ISPI.
Trump che ha sottratto volutamente le carte, haignorato le ripetute richieste degli Archivi nazionali, ha ignorato l’ingiunzione del Dipartimento di Giustizia perché le desse indietro, e ha ceduto solo davanti all’Fbi che entrava nella sua villa alle prime luci dell’alba come in un film hollywoodiano. Per poi sostenere di aver declassificato quei documenti ‘con la forza del pensiero’.
Mentre i legali di Biden che hanno fatto la scoperta hanno invece subito allertato gli Archivi, consegnato i file, e condotto ulteriori ricerche per scoprire se ce ne fossero altri, come poi è risultato.
Certo non è una bella figura per l’amministrazione Biden che ora, a prescindere dal dipartimento di giustizia, sarà condannata a «settimane di prime pagine sull’argomento», come rileva il Washington Post. Con qualche peccatuccio di opportunismo politico sul tempi di diffusione della notizia. La scoperta dei documenti al Penn Biden Center risale al 2 novembre dell’anno scorso, appena quattro giorni prima del voto di midterm sul quale avrebbe avuto conseguenze nefaste. Comportamento istituzionale corretto (subito la denuncia dei ritrovamenti), ma bocche cucite con la stampa per non far esplodere lo scandalo in campagna elettorale. Con la stampa che ora ci sguazza e salda il conto.
Parere sul caso dell’ex consigliere di Hillary Clinton Brian Fallon al Washington Post, nessuna conseguenza legale per il presidente. Ma… «Il beneficio principale per i repubblicani è che Trump può tirare un sospiro di sollievo dato che ora sarà più difficile autorizzare un’azione penale contro di lui, anche se meritata»