
Un successo sino a ieri inimmaginabile per la politica estera di Xi Jinping. È stato infatti il leader cinese, un po’ a sorpresa, a riempire il vuoto geopolitico lasciato dalla Casa Bianca in Medio Oriente e nel Golfo. Xi ha sfruttato quella che gli esperti di strategia chiamano «finestra di opportunità», facendo da mediatore e riuscendo a mettere, intorno allo stesso tavolo, due nazioni in rotta di collisione. Una rivalità dovuta non solo alla differente interpretazione della religione islamica (l’Arabia sunnita, Iran sciita), ma anche all’ambizione di fungere da potenza-leader della regione. Una diversità espressa anche sul terreno delle alleanze internazionali, con Riad più vicina all’Occidente e Teheran arroccata in una posizione ferocemente antiamericana.
Lo scontro quasi fisico si è acuito con la rivolta nello Yemen. Dove la guerra civile, tra sunniti e sciiti, è stata l’occasione di intervenire ‘per procura’, armando e sostenendo entrambe le parti.
Nel 2016 la situazione è definitivamente precipitata, allorquando una marea di manifestanti ha assaltato l’ambasciata saudita di Teheran. Le proteste erano scoppiate dopo l’esecuzione di un importante religioso sciita, decretata dalle autorità sunnite di Riad. A causa della grave violazione subita, gli iraniani hanno rotto le relazioni diplomatiche ed è cominciato un periodo carico di tensioni, in cui entrambe le parti hanno tenuto il dito sul grilletto. Fino a quando la geopolitica internazionale non ha fatto segnare una svolta. Nella zigzagante politica estera statunitense, il Medio Oriente e il Golfo Persico hanno progressivamente perso il loro appeal.
All’interno del Partito Democratico Usa, poi, è cresciuta una robusta corrente anti-saudita, che faceva leva sul mancato rispetto dei diritti umani in quel Paese islamico. Inoltre, molti, in Occidente, attribuivano precise responsabilità al Principe bin Salman, per l’omicidio di un giornalista, fatto a pezzi nel Consolato saudita di Istanbul. Insomma, i rapporti con gli Stati Uniti si sono pressoché congelati. E quando Biden ha cercato di metterci una pezza, per garantirsi un trattamento di favore sul petrolio, non c’è stato più niente da fare. L’Arabia Saudita gli ha voltato le spalle e si dice che bin Salman gli abbia pure sbattuto il telefono in faccia.
A quel punto, sono entrati in ballo i russi (con l’Opec Plus) e i cinesi, trovando terreno fertile per la loro strategia di penetrazione: prima progetti infrastrutturali, finanziari, produttivi e commerciali in senso lato. E solo dopo, una progressiva ‘stretta’ dei legami politici.
Gli eventi di questo burrascoso periodo hanno favorito un tale sviluppo. La guerra in Ucraina e le sanzioni adottate contro la Russia hanno comportato un vero e proprio ‘riallineamento’ geopolitico. Lungi dal seguire gli Usa e l’Europa, i grandi produttori di petrolio (quelli del Golfo Persico in particolare) sono andati avanti per la loro strada. Insensibili a tutte le pressioni.
E se per l’Iran l’atteggiamento può pure essere comprensibile, meno chiaro dovrebbe essere per Paesi come l’Arabia Saudita o gli Emirati Uniti. Ma gratta gratta, sotto la vernice di una sorta di ‘autonomia diplomatica’ esce fuori una massiccia dose di ‘realpolitik’, nella quale l’interesse nazionale viene prima di ogni cosa. Se poi il potente alleato che ti eri scelto (l’America) ti molla alla prima occasione, per meschini interessi elettorali di politica interna, allora la frittata è fatta. E si può solo rivoltarla. Detto fatto.
Il Wall Street Journal di ieri spiegava, con grande dovizia di particolari, che «l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti acquistano con forti sconti il petrolio russo». Sì, capita proprio questo. Due grossi produttori dell’Opec aiutano Mosca ad aggirare le sanzioni e non lo fanno certo gratis. Il greggio di Putin che comprano è soprattutto destinato al mercato interno, mentre quello che ‘risparmiano’ si aggiunge alle esportazioni che, naturalmente, fruttano un prezzo decisamente maggiore. Sembra un giochetto da magliari, ma funziona. Gli americani lo sanno, ma non dicono niente, per non peggiorare i loro rapporti (più di quanto li abbiano già compromessi) con questi Paesi. E poi, sussurrano a Washington, a uscire con le ossa rotte sono gli europei, specie Francia e Italia.
Almeno così scrive il WSJ, perché il lato tragicomico della vicenda è che, nella partita di giro, noi non compriamo greggio di Putin (a buon mercato), ma acquistiamo quello che gli altri ci vendono. Anche perché loro aumentano l’export, ‘sfamando’ il mercato interno proprio col petrolio di Putin.
Non solo. Il WSJ ha scoperto anche che Arabia ed Emirati sono diventati importanti centri di stoccaggio del greggio russo. In sostanza, l’oro nero viene ‘parcheggiato’ al sicuro nei terminal petroliferi della Penisola, per poi essere imbarcato ‘a richiesta’ e senza troppe domande. Il quotidiano finanziario americano, riporta i dati della società ‘Kpler’ che danno un quadro molto significativo: nel 2022, gli Emirati hanno importato 60 milioni di barili di petrolio russo della qualità Urals. L’ Arabia Saudita dovrebbe essere arrivata a circa 36 milioni. Si pensa che queste quote possano crescere nell’anno in corso, specie se si tiene conto del differenziale di prezzo tra il greggio sul mercato “spot” (sopra gli 80 dollari) e quello di Putin (meno di 50 dollari).
D’altro canto, il fenomeno della ‘triangolazione’, via Emirati o Arabia, per aggirare le sanzioni, sta dilagando e ci sarebbero delle spedizioni “a nero” che interessano anche l’Europa. Fino a quando qualcuno venderà petrolio a prezzi stracciati, ci sarà qualche altro che se lo comprerà.