A decidere se il cofondatore di Wikileaks finirà i suoi giorni nella cella di una prigione americana, se non addirittura la condanna morte, sarà oggi l’Alta Corte britannica riunita da stamane per decidere sulla concessione o meno dell’estradizione negli Usa, dove sulla testa del giornalista pendono 18 capi di imputazione e una possibile condanna a 175 anni di carcere per aver divulgato migliaia di file riservati denunciando anche abusi commessi dalle forze armate americane in Iraq e Afghanistan.
Ieri Assange non ha partecipato all’udienza di quello che potrebbe essere il suo ultimo procedimento legale in Gran Bretagna. Da tempo in condizioni precarie di salute dopo un regime di isolamento di 5 anni nel carcere di massima sicurezza di Belmarsh a Londra, dove si trova dal 2019, senza aver subito alcun processo, in attesa dell’estradizione.
Il cofondatore di WikiLeaks ha fatto appello contro l’estradizione negli Stati Uniti, dove è ricercato per aver violato il ‘National Espionage Act’, la legge sullo spionaggio americana, che risale al 1917. Legge centenaria in contrasto con la sensibilità democratica attuale sul diritto ad essere informati sulla verità dei fatti anche militari e dei governi. Lui, giornalista, accusato di aver pubblicato attraverso WikiLeaks, a partire dal 2010, circa 700mila documenti riservati, sulle attività militari e diplomatiche degli Stati Uniti, in particolare su crimini di guerra compiuti dai soldati statunitensi nel corso dei conflitti in Iraq e Afghanistan.
Secondo le accuse sarebbe invece una spia da processare e, come tale, nel caso venga ritenuto effettivamente colpevole, rischia una pena detentiva fino a 175 anni in un istituto di pena statunitense.
I tribunali inglesi nel 2021 avevano negato la richiesta di estradizione Usa, sentenza ribaltata in appello. Da allora altri anni di attesa in carcere e adesso si è arrivati a un punto di non ritorno, almeno nel Regno Unito. Nel caso il ricorso non venisse accolto sono terminate per il prigioniero di Belmarsh le possibilità di azione legale in Gran Bretagna e l’unica soluzione in tal senso resterebbe il ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo.
Ci si interroga intanto anche sulle eventuali ricadute diplomatiche della vicenda giudiziaria, dato che l’Australia vorrebbe che Assange facesse ritorno in patria (Julian Assange è cittadino australiano), senza essere estradato negli Usa. Il primo ministro del Commonwealth dell’Australia, Anthony Albanese, si è speso per questo anche nel suo ultimo viaggio negli Usa.
Stella Moris, avvocata e moglie di Julian, ha dichiarato alla Bbc che questa vicenda giudiziaria – definita da alcuni ‘il caso Dreyfus del XXI secolo’ – «è destinata a decidere se egli vivrà o morirà». Davanti alla Royal Courts of Justice di Londra, ieri per tutta la giornata numerosi attivisti e sostenitori del giornalista australiano hanno parlato da una postazione improvvisata, chiedendo la sua liberazione e invocando la libertà di stampa e la difesa dei diritti umani.
Londra, è la domanda (retorica) che circola tra chi lo vuole libero, consegnerebbe alla Russia di Vladimir Putin una persona accusata di aver pubblicato documenti segreti russi?
Questione spinosa anche per l’attuale titolare della Casa Bianca, Joe Bidene. Difficile ipotizzare adesso, nel pieno della sua non facile campagna presidenziale, un eventuale ripensamento. Nel caso in cui il ricorso domani fosse bocciato Assange potrebbe essere caricato su un volo dei servizi Marshal statunitensi in 28 giorni.
L’unica cosa che potrebbe bloccarne il decollo è un ordine temporaneo della Corte Europea dei Diritti Umani. È la cosiddetta ‘regola 39’ che nel 2020 consentì a Navalny, vittima di un avvelenato con un agente nervino, di lasciare la Russia per un ricovero in Germania.