La Giordania ’americana’ del Re e la popolazione sempre più arrabbiata

Stretto tra l’incudine iraniana e il martello israeliano, pressato dall’ingombrante alleato americano, re Abdullah di Giordania ha ordinato alla sua aviazione di abbattere tutti i droni e i missili lanciati dagli ayatollah, che stavano tagliando il suo spazio aereo mentre volavano per colpire lo Stato ebraico.

Schieramenti impopolari

La Giordania si è schierata a fianco di Israele e degli Stati Uniti, e questa è una mossa assolutamente impopolare, in qualsiasi regime arabo, anche in quelli che la narrativa occidentale presenta come ‘moderati’. Perché, la presunta ‘moderazione politica’ delle classi dirigenti, non corrisponde quasi mai agli umori più istintivi di una base frustrata e propensa a percepire la cultura occidentale come ‘colonizzatrice’.

Il regno ostaggio

Ma i margini di manovra di re Abdullah erano praticamente inesistenti. Tutti i Paesi della regione, vicini agli Stati Uniti, hanno chiuso lo spazio aereo poche ore prima dell’attacco. Tutti erano stati avvisati, delle traiettorie e anche degli orari. L’Iran, attraverso una serie di triangolazioni diplomatiche, ha cercato di fare meno danno possibile. Per evitare un nuovo contrattacco. La Giordania è da anni, ormai, una sorta di Fort Apache americano in Medio Oriente. Rappresenta una piattaforma strategica importante e ospita basi militari di Washington che, fino allo scorso gennaio, venivano considerate un retroterra ‘sicuro’.

‘Torre 22’ e i dubbi su Damasco

Poi, un attacco improvviso di milizie sciite a una postazione chiamata ‘Torre 22’, uccise tre soldati Usa e ne ferì una trentina. Biden giurò vendetta. E non siamo proprio sicuri che non c’entrasse niente con l’attacco al Consolato iraniano di Damasco.  Comunque sia, da allora la Giordania è diventata un nervo scoperto e viene ‘sorvegliata’ dall’Intelligence Usa, 24 ore su 24. La situazione interna, infatti, non è tranquillissima.

Regna la rabbia

Lo scorso dicembre, una folla minacciosa si è radunata davanti all’Ambasciata Usa di Amman, per protestare contro i bombardamenti israeliani a Gaza. Sventolavano bandiere palestinesi e gridavano: «L’America è terrorismo». Ma il problema più immediato per il governo, con le elezioni alle porte, è costituito dalla crescente popolarità dei partiti islamisti. In particolare, i Fratelli Musulmani sono in vertiginosa ascesa e sfruttano la rabbia popolare, per la politica della Giordania giudicata troppo collusa con gli interessi americani e israeliani. Secondo i dati forniti dal think tank Al Monitor, anche Hamas gode di un buon sostegno, mentre il governo di Amman cerca di mantenere i difficili equilibri del Paese, senza forzare troppo la mano. Anche se in certe occasioni, la polizia (come nel ‘Venerdì della rabbia’) ha dovuto disperdere i manifestanti che inneggiavano alla Palestina.

Contenzioso israelo-giordano

Il contenzioso israelo-giordano è abbastanza ampio, ma tra tutte le priorità quella che sicuramente agita di più i sonni di re Abdullah è la strategia di pulizia etnica ‘mascherata’ che sta seguendo in Cisgiordania il governo Netanyahu. E a questa paura si aggiunge anche quella di un possibile trasferimento forzato dei palestinesi in ‘esubero’, da Gaza. La Giordania è uno Stato etnicamente a maggioranza palestinese (oltre il 60%), per cui in questo Paese più che in altri posti è avvertito maggiormente il dramma di una possibile nuova Nakhba (una catastrofe), per l’espulsione dalla Striscia. D’altro canto, per tenersi buono l’irascibile Netanyahu, re Abdullah ha fatto di tutto per raggiungere un accordo sull’acqua, che gli serve come l’oro.

L’acqua del fiume Giordano

Secondo il Trattato di pace con Israele del 1994, la Giordania può acquistare 50 milioni di metti cubi d’acqua l’anno, provenienti dal fiume Giordano. Ma non basta. Negli ultimi anni, Tel Aviv ne ha esportato il doppio ed è quanto ne chiede ora Amman, a partire da giugno. Ma il governo israeliano, si sa, quando può, alza il prezzo. A Tel Aviv non sono piaciute le reazioni giordane ai bombardamenti di Gaza. Quindi, prima di aprire il rubinetto, ‘ci vogliono pensare’. Anche se non conviene a nessuno tirare troppo la corda, perché i litigi fatti per imbonire l’opinione pubblica, debbono poi essere composti dalla diplomazia ‘parallela’. Il problema, però, è che ciò che avviene nelle segrete stanze delle Cancellerie, non è ciò che percepiscono le masse popolari.

Il solo Islam che ha difeso Gaza

In questo preciso momento storico, per molti mussulmani, l’Iran di Khamenei, gli Hezbollah del Libano e gli Houthi dello Yemen, sono le uniche tre entità islamiche che hanno avuto la forza (o l’imprudenza, dipende dai punti di vista) di sfidare Israele (e gli Usa) direttamente sul terreno militare. Leggendo con attenzione questa realtà, si vede come si sia creato un ‘Asse di resistenza’ tutto sciita, che si contrappone ai regimi moderati sunniti ‘filo-occidentali’ o, comunque, legati da stretti rapporti economici e finanziari, prima ancora che politici, sia con gli Usa che con l’Europa. Naturalmente, la guerra di Gaza e il riposizionamento dei regimi arabi moderati, nei confronti di Israele e dell’Occidente, è stato chiaro.

Causa palestinese spartiacque

Dopo l’attacco di Hamas e la sproporzionata rappresaglia israeliana, la palese incapacità da parte degli Stati Uniti e dei suoi alleati di fare rispettare le norme basilari del diritto internazionale ha alimentato nuovi sentimenti di ostilità in tutto l’universo islamico. E, quello che non si vuol capire in America e in Europa, è che proprio la ‘causa palestinese’ è diventata lo spartiacque di due mondi che parlano lingue diverse.
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