
Risultato in apparenza scontato. I partiti che avevano dato il via libera alle forniture belliche all’inizio del conflitto soro rimasti sulla stessa linea, con l’eccezione del M5S. «Ma dietro questi risultati c’è molto più succo politico» propone Andrea Carugati sul Manifesto. «Il M5S, ad esempio, ha votato in larghissima parte a favore della mozione di Sinistra e Verdi, l’unica a chiedere apertamente lo stop all’invio di armi». Favorevole Giuseppe Conte, che aveva chiesto il dibattito parlamentare, e aveva presentato una mozione che chiedeva di coinvolgere il Parlamento prima di ogni nuova fornitura militare.
Un testo meno esplicito di quello della sinistra, senza l’impegno allo stop alle armi, ma comunque di opposizione. «Non possiamo continuare a pensare ad una illusoria disfatta della Russia», ha detto in aula il leader M5S. «Sulle armi pretendiamo un passaggio nelle aule parlamentari. Se il governo vuole perorare una linea guerrafondaia ‘armi a oltranza e zero negoziati’ venga in aula a dirlo, a metterci la faccia e a far votare il Parlamento». «Sul piano delle armi si è parlato ed agito troppo, mentre di diplomazia non vediamo traccia. Esigiamo un cambio di passo dalla Nato e dalla Ue. E soprattutto dal nostro Paese», ha concluso Conte ricordando la manifestazione per la pace del 5 novembre a Roma.
Sul testo di Fratoianni si è registrata anche una spaccatura del Pd. Il grosso del partito ha votato è rimasto sulla linea atlantista Letta-Guerini. Contro l’ala sinistra con Elly Schlein, Laura Boldrini, Alessandro Zan e il gruppo di Articolo 1 (Speranza, Scotto, Stumpo e Cecilia Guerra) che non ha partecipato al voto, e un astenuto. «Un timido gesto di dissenso rispetto alla linea dem, e di aperture verso le istanze pacifiste». La mozione del Pd, prevedeva il sostegno a Kiev «con tutte le forme di assistenza necessarie». L’aspetto umanitario senza dirlo.
Il testo di Calenda e soci, il più bellicista di tutti. Il primo punto poi bocciato chiedeva di «proseguire senza riserve l’attività di sostegno, economico e militare, a Kiev, in continuità con le azioni intraprese e i provvedimenti adottati» dal governo Draghi, «anche mediante l’invio di nuovi equipaggiamenti bellici, tenendo opportunamente informato il Parlamento».
La questione dell’invio di armi a Kiev contro l’aggressione russa propone ormai dopo più di nove mesi di conflitto sanguinoso, temi ineludibili, domande scomode e irritanti, e un giudizio perlomeno critico, per Tommaso Di Francesco, che parla di parlamento egemonizzato in chiave bipartisan da ‘estremismo atlantista’. Mentre i putiniani veri, i sovranisti e gli iper-nazionalisti che vedono la Nato al posto dell’Ue sono nei banchi della destra estrema che vuole l’invio di armi. Lettura di sinistra che deve ricorrere a papa Bergoglio.
Noam Chomski che non ha esitato a definire «eroica» la resistenza ucraina, allo stesso tempo, come scrive nel suo ultimo saggio-intervista ‘Perché l’Ucraina’ non risparmia accuse per questa guerra alla strategia di allargamento della Nato a Est, pericolosa ed esplosiva già per Gorbaciov prima di uscire di scena e secondo molti della stessa leadership Usa – da Kissinger a Kennan. L’invio degli Stati atlantici non è un fatto morale ma si muove nell’ottica della guerra che deve continuare, in modo speculare a quella di Putin.
Se fosse moralità aiutare in armi un popolo aggredito, perché non inviarle anche ai palestinesi, ai curdi e agli Houti, per guerre e occupazioni militari per le quali invece le armi le inviamo agli aggressori?
«Il capo di stato maggiore dell’esercito Usa Mark Milley che le armi a Kiev le invia -come la Nato che ammette ammette di avere ‘addestrato dal 2015 l’esercito ucraino’-, a metà novembre dichiara che dopo 200mila morti e feriti da una parte e dall’altra, non c’è alcuna possibilità di soluzione militare del conflitto e nessuna probabilità di vittoria ucraina o russa che sia, ma c’è solo l’opportunità di tenere aperta una finestra negoziale». Varrà la pena interrogarsi su queste dichiarazioni? si chiede De Francesco. «Putin deve andarsene a casa, speriamo. Ma non lo farà per via militare».
Nove mesi di guerra dopo siamo a più di 40 miliardi di armamenti arrivati dalla Nato, trasformando il territorio dell’Ucraina nel più grande hub di armi del mondo. «Fermo restando che gli attacchi criminali russi da tempo sembrano prendere di mira direttamente anche le infrastrutture civili come l’energia tattiche che violano il diritto internazionale umanitario perché trasformano obiettivi civili in obiettivi militari». Ma sempre sempre ad agosto, tra il 60 e il 70% delle armi inviate a Kiev, mancava all’appello: al punto che da Washington è stato inviato il super-generale Garrick Harmon a caccia delle armi scomparse.
Allarmi di Europol che metteva in guardia sul fatto che le armi potessero finire alla criminalità organizzata. E il rischiosissimpo ‘inciampo’ del missile anti missile ucraino finito in terra polacca. Missile subito dichiarato da Zelenski «messaggio di Putin al G20» in corso. Ore drammatiche in una crisi che camminava sull’orlo di un conflitto atomico. Una vicenda che sembra racchiudere in sé il rischio «normale» di un incidente deflagrante e il fatto che le armi di difesa possono diventare di offesa.
Chiedeva il ministro degli esteri ucraino Dmytro Kuleba ad un giornalista italiano inviato sul campo: «Come mai Putin può arrogarsi il diritto di colpire impunemente la nostra capitale e noi non potremmo rispondere su Mosca?». Già, perché no…
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