Nel maggio 1915 l’Italia entrò in guerra al fianco di Francia, Inghilterra e Russia, che stavano combattendo contro Austria e Germania, suscitando sentimenti controversi e contrastanti. Prima di scegliere la guerra l’Italia aveva infatti condiviso per quasi trent’anni con Austria e Germania un’alleanza politica e militare. Formalmente il patto era di natura ‘difensiva’ e prevedeva la guerra solo nel caso in cui le altre parti contraenti fossero state a loro volta attaccate; poiché invece erano state Austria e Germania a muovere guerra per prime, l’obbligo non esisteva. Da un punto di vista strettamente giuridico la soluzione era stata trovata e, prima della dichiarazione ufficiale di guerra, unilateralmente fu denunciata l’alleanza.
Anche prima del 1914 la Triplice però non si era dimostrata granitica: ad esempio, ai primi del secolo, era stato concluso un accordo con la Francia, una sorta di patto di non aggressione. Difficile immaginare cosa sarebbe successo se la Francia avesse attaccato la Germania e questa avesse chiesto aiuto all’Italia proprio basandosi sulla natura difensiva dell’alleanza. Negli anni di fine secolo, per definire questa disinvolta politica, fu coniata l’espressione ‘politica dei giri di valzer’.
Nel concitato periodo dall’attentato a Sarajevo alla dichiarazione di guerra alla Serbia Austria e Germania si consultarono spesso escludendo tuttavia l’Italia e provocando un certo risentimento. Resta però anche il fatto che le trattative con Francia e Inghilterra da parte italiana furono iniziate prima della denuncia della Triplice Alleanza: sia pure per poco face parte di ‘due’ alleanze.
Alla fine della Prima Guerra mondiale una delle personalità politiche che godette di grande prestigio internazionale fu senza dubbio il presidente americano Thomas Woodrow Wilson, che fu anche il primo presidente a compiere un lungo viaggio politico in Europa. Le condizioni di pace furono fortemente influenzate dalla sua visione del mondo e delle relazioni internazionali, ma nonostante i buoni propositi, l’Europa si ritrovò in un mare di guai che la portò esattamente vent’anni dopo a combattere una guerra peggiore della prima. Eppure ovunque si recasse il presidente ‘della democrazia’ suscitava entusiasmi popolari sinceri essendo ritenuto il politico che aveva fatto finire la guerra e indubbiamente l’apporto americano – non paragonabile tuttavia a quello della Seconda Guerra mondiale – aveva spostato il piatto della bilancia a favore degli Alleati.
Nonostante il discorso di D’Annunzio sulla ‘vittoria mutilata’ e la bomba a orologeria in preparazione per Fiume, nel gennaio 1919 anche a Milano le accoglienze furono entusiastiche: sul «Corriere» si scrisse addirittura che grazie a lui era stata una bella giornata di sole. Wilson però non riuscì a portare il sole sul resto d’Europa dopo la firma del trattato di pace: non disponendo di maggioranza al senato, il trattato di Versailles non fu ratificato dagli Stati Uniti.
Nonostante il progetto più innovativo per mantenere la pace in Europa fosse stata l’idea della costituzione della Società delle Nazioni, gli Stati Uniti non aderirono nemmeno, ma le banche americane non dimenticarono di farsi restituire dalla Francia le enormi somme prestate. Cominciarono allora le pressioni sulla Germania sconfitta per le riparazioni dei danni di guerra con le conseguenze conosciamo.
Ossessionato dalla sicurezza dell’Unione Sovietica e insoddisfatto delle relazioni che si stavano instaurando faticosamente con Francia e Inghilterra, il 23 agosto 1939 Stalin concluse con Hitler il cosiddetto ‘patto di non aggressione’, probabilmente uno degli eventi politici più innaturali e contradditori del XX secolo. Lo stesso Hitler, che in «Mein Kampf» aveva espresso senza mezzi termini la volontà di assoggettare il mondo slavo e sconfiggere definitivamente il mostro bolscevico, pochi giorni prima della firma aveva detto di aver bisogno delle risorse agricole russe, in particolare dell’Ucraina, ma senza nutrire fiducia sulla durata dell’accordo.
L’impatto sull’opinione pubblica mondiale fu enorme e provocò un’ondata di pessimismo che intuì la guerra imminente: sebbene il testo dell’accordo non fosse stato reso noto interamente, apparve chiaro che il destino della Polonia era segnato. Particolarmente aspre furono anche le reazioni all’interno dei partiti comunisti europei: si scontrarono infatti l’ortodossia ideologica e l’obbedienza all’Unione Sovietica con il sentimento di condanna universale suscitato dal nazismo in tutto il mondo democratico.
Solo la stampa italiana, controllata dal regime, espresse un giudizio positivo, ma lentamente si affievolirono i facili entusiasmi. Stalin però continuò a credere che il patto avrebbe funzionato: quando la spia Richard Sorge – che aveva avuto accesso a documenti segretissimi tedeschi sull’attacco imminente – comunicò a Mosca l’informazione, fu bollato come «provocatore antisovietico». Ma l’attacco cominciò il 22 giugno 1941.