
Passaggio chiave, i danni subiti dai Paesi in via di sviluppo per i cambiamenti climatici causati dai Paesi sviluppati scrive Simone Tagliapietra, docente all’Università Cattolica di Milano, sul Corriere della Sera, con una buona dose di ottimismo. «Dopo 48 ore di intensi colloqui, i delegati hanno deciso di inserire nell’agenda della conferenza un punto su ‘Perdite e danni’, termine tecnico per indicare chi debba far fronte ai costi dei danni causati da eventi metereologici estremi nei Paesi in via di sviluppo più vulnerabili a un cambiamento climatico a cui certamente non hanno contribuito». La recente, devastante, alluvione in Pakistan è solo il più recente esempio dei danni che già oggi genera il riscaldamento globale.
Forse nessun risultato pratico a breve ma si inizia a discutere una questione che da tempo crea le più profonde spaccature tra Paesi sviluppati e Paesi in via di sviluppo. Di «Perdite e danni» si parla al 1991 quando l’Alleanza dei piccoli Stati insulari ha chiesto un meccanismo che compensasse i Paesi colpiti dall’innalzamento del livello del mare. Trent’anni dopo più Paesi vulnerabili si sono resi conto di essere colpiti da cambiamenti climatici che vanno oltre la loro capacità di mitigare.
L’anno scorso, la Cop26 è stata molto vicina alla creazione di un «Fondo per le perdite e i danni». Finanziamenti delle nazioni ricche verso i Paesi in via di sviluppo più vulnerabili sul fronte climatico. Ma l’iniziativa è stata alla fine respinta dai Paesi ricchi, a cominciare da Europa e Stati Uniti, che temono di addossarsi una responsabilità illimitata sul tema.
Già nel 2009, i Paesi sviluppati avevano concordato di fornire 100 miliardi di dollari all’anno entro il 2020 ai Paesi in via di sviluppo per sostenerli nei progetti di mitigazione e adattamento al clima. Ma a seconda di come viene misurato il «sostegno», mancano tra 20 miliardi (stime Ocse) e 80 miliardi di dollari all’anno (stime Oxfam), con i furbi invece di conteggiare solo i benefici dai prestiti a tassi inferiori a quelli di mercato calcolano l’intero valore dei prestiti che poi vogliono farsi restituire.
«Le Nazioni Unite stimano che gli impegni climatici presentati dai Paesi in via di sviluppo nel vecchio Accordo di Parigi comporterebbero da soli un fabbisogno finanziario complessivo di circa 6 trilioni di dollari fino al 2030». Ma almeno, a Sharm el-Sheikh, mantenere l’impegno di 100 miliardi di dollari per il clima a sostegno dei Paesi in via di sviluppo e agire per proteggere le comunità vulnerabili già colpite dal cambiamento climatico. Insomma, «fondo perdite e danni», ma sulla base di contributi volontari.
Per ora, la Danimarca è l’unico Paese che ha offerto un risarcimento per le «Perdite e danni» ai Paesi più vulnerabili al clima, impegnandosi nel settembre 2022 a destinare 13 milioni di dollari. Meccanismo ‘donazioni’ a scansare ammissioni di responsabilità e impegni futuri. di Parigi delle «responsabilità comuni ma differenziate» e per garantire la giustizia climatica globale. Questo definirà anche, in ultima analisi, se la Cop27 sarà un successo o meno.
«I governi da soli non possono farcela: anche il settore privato deve impegnarsi. E c’è un chiaro motivo di business per farlo», ammette Neo Gim Huay, nome e aspetto asiatico, formazione scientifica e di Busines tutta occidentale. La signora Neo Gim Huay è amministratore delegato del Centro per la natura e il clima al World Economic Forum e iln suo allarme si basa su dati scientifici ormai certi. «Ora dobbiamo concentrarci sulla necessità di proteggere noi stessi e il nostro pianeta. I cambiamenti climatici non sono più una minaccia lontana. Sono qui, influiscono sulle vite, i mezzi di sussistenza, sconvolgono i cicli idrologici e altri cicli ecologici».
Finora l’adattamento ai cambiamenti climatici è stato considerato in gran parte una responsabilità dei governi, ma i governi non possono riuscirci da soli. E qui entra in campo l’affare del millennio per salvare il pianeta, bombe atomiche permettendo. «A livello globale, 1.800 miliardi di dollari di investimenti negli sforzi di adattamento potrebbero generare 7.100 miliardi di dollari di profitti netti totali entro il 2030, secondo un rapporto del 2019 della Commissione globale sull’adattamento».