
Politica Nato in coalizione ‘minestrone’. La premier socialdemocratica Mette Frederiksen – che a dicembre ha formato una coalizione con Liberali e Moderati, formazioni di destra e di centro – ha deciso di abolire lo ‘store bededag’, il Grande giorno della preghiera tradizionale nel Paese nordico, per raccogliere almeno parte dei 430 milioni di euro, per portare la spesa militare al 2% del Pil, come chiesto a ‘gran voce’ (forti pressioni) dall’Alleanza Atlantica a spinta Usa-baltica impegnata sul fronte ucraino. Cancellazione della festività poco consona alla nuova Europa guerriera, aggiungendo di suo, per svergognare ancora di più la parola ‘socialismo’ a cui si richiamerebbe la premier, anche tagli fiscali per i redditi più alti e a una riforma della sanità che premia i gruppi privati. Oltre che a saccheggiare i bilanci dell’istruzione, della sanità, del welfare.
«Per l’esecutivo i quasi 4 miliardi di euro che il paese ha speso per la Difesa nel 2022 – l’1% del Pil – sono troppo pochi per far fronte alla minaccia russa e per continuare a sostenere militarmente l’Ucraina», segnala Marco Santopadre. Con la NATO che a gennaio bacchettava Copenaghen per aver investito poco nelle forze armate. La popolazione la pensa diversamente e si arrabbia. Secondo un sondaggio fresco di stagione, il 75% dei danesi sarebbe contrario al provvedimento che pretende di eliminare, già dal 2024, la festa tradizionale che cade il quarto venerdì successivo alla domenica di Pasqua, festività nazionale istituita nel lontano 1686.
Sul piede di guerra ci sono sia le chiese protestanti sia i sindacati che, per motivi in parte diversi, nel paese nordico hanno dato vita ad una mobilitazione senza precedenti, sottolinea Pagine Esteri. Una petizione online ha raccolto in pochi giorni quasi 500 mila firme, e domenica 5 febbraio quasi 50 mila persone provenienti da tutta la Danimarca hanno protestato nella piazza del palazzo di Christiansborg a Copenaghen, sede del Parlamento, per chiedere all’esecutivo di ritirare il provvedimento. Era da almeno un decennio che in Danimarca non si assisteva a una manifestazione così partecipata.
In piazza soprattutto, i militanti della Confederazione dei Sindacati che riunisce 79 organizzazioni e conta 1,3 milioni di affiliati in un paese di appena 6 milioni di abitanti. In prima fila nella protesta anche tutti i partiti di sinistra, dall’Alleanza rosso-verde fino ai comunisti passando per il Partito Socialista Popolare e formazioni ecologiste. La Chiesa Evangelico-Luterana, ovviamente, è nettamente schierata contro la decisione di Frederiksen, ma l’opinione contraria è sorretta nella maggioranza dei casi da considerazioni di ordine politico e sociale piuttosto che religiose.
Molti gli economisti che contestano gli studi governativi, secondo i quali una giornata lavorativa in più permetterebbe maggiori introiti per 3,2 miliardi di corone con entrate fiscali e riduzione dei sussidi. Le risorse rastrellate, secondo alcuni studi, sarebbero molto più contenute, rendendo la misura inutile, oltre che ingiusta. Il quotidiano ‘Politiken’, il più prestigioso del Paese e con una linea editoriale di centrosinistra, ha definito un «autogol incomprensibile» il piano della premier, che però sembra non voler tener conto delle proteste, anche se secondo i sondaggi il suo partito ha subito un tracollo nelle intenzioni di voto.
Nelle ultime settimane, intanto, l’esecutivo ha deciso di inviare a Kiev un certo numero di tank Leopard1, dopo aver già ceduto all’Ucraina 19 sistemi Caesar di fabbricazione francese, degli obici montati su camion che possono colpire bersagli fino a sei chilometri di distanza. Più o meno ferraglia, in termini militari, ma simbolo e sfida.
Peggio il ministro della Difesa e vicepremier di Copenaghen Jakob Ellemann-Jensen che spinga il governo a «imporre la coscrizione militare obbligatoria a sorteggio anche per le donne, al fine di aumentare le dimensioni e l’efficienza delle proprie forze armate». Problemi politici e forse non soltanto.