
Indonesia e Malesia, ormai i più popolosi Paesi di religione musulmana nel mondo. In un report molto approfondito, da Kuala Lumpur e da Giakarta, la ‘Channel News Asia’ spiega la dimensione sociale del fenomeno e la sua portata, avvertendo che i boicottaggi di presunte imprese filo-israeliane difficilmente avranno un impatto diretto sulle ostilità a Gaza. «Sebbene possano rappresentare un sostegno morale alla causa». E il passa-parola per sostenere la causa palestinese in maniera non violenta sta funzionando, ma non certo in dimensioni tali da costituire, al momento, una preoccupazione per Tel Aviv.
Reazione israeliana viene giudicata ingiusta verso i civili palestinesi di Gaza, col colpevole assenso degli Stati Uniti e in soprattutto in Malesia ma anche in Indonesia si scende in piazza. Grandi manifestazioni di solidarietà verso i palestinesi e il messaggio di ‘sanzionare’ in qualche modo l’economia israeliana ha cominciato a circolare. Certo, l’impatto netto di campagne di questo tipo, effettuate in mercati di medio calibro, ha una ricaduta molto relativa. Gli esperti sottolineano che le sanzioni e i boicottaggi non hanno mai funzionato. A livello economico. Ma possono avere un effetto-domino sul piano geopolitico e della formazione di nuovi equilibri nelle relazioni internazionali.
Una mobilitazione dei consumatori, che si fonda con rivendicazioni di tipo ideologico (come la difesa dei diritti umani) rappresenta una potente arma di pressione da non sottovalutare.
Non a caso, Channel News Asia ricorda che analoghe iniziative di boicottaggio, contro marchi legati commercialmente all’economia israeliana, sono state prese anche in Sudafrica e in Turchia, mentre Paesi come Cile e Bolivia hanno addirittura rotto le relazioni diplomatiche con Tel Aviv. La CNA, nel suo report, sostiene che l’invito a non frequentare i fast food a marchio americano, che si ritengono vicini a Israele, stia funzionando soprattutto in Malesia. In Indonesia gran parte dell’attenzione è rivolta alle prossime elezioni nazionali. Ma la sorpresa è che l’attività del movimento ‘BDS’, quasi caduta nel dimenticatoio, è stata riportata alla ribalta dalla crisi di Gaza. Così come è ritornata prepotentemente alla ribalta la figura di Omar Barghouti, l’intellettuale che ha fondato l’organizzazione nel 2005.
È un altro Barghouti, Marwan, l’uomo che potrebbe fermare davvero la guerra a Gaza. Prigioniero politico in carcere da 21 anni, ha guidato con diversi ruoli le prime due Intifade. Personaggio di grande prestigio personale sia a Gaza che in Cisgiordania, è stato indicato più volte come il successore ideale dell’anziano leader dell’ANP Abu Mazen, e forse anche per questo ancora in galera. Marwan Barghouti, conosciuto come il Nelson Mandela palestinese.
Nel marzo 2016, durante una conferenza anti-BDS a Gerusalemme, Yisrael Katz, ministro israeliano dei trasporti, dell’intelligence e dell’energia atomica, aveva invitato Israele a impegnarsi in «eliminazioni civili mirate dei leader del BDS». L’espressione fa un gioco con la parola ebraica che indica omicidi mirati. Gilad Erdan, Ministro della Pubblica Sicurezza, ha chiarito che non intendeva danni fisici. Aryeh Deri, ministro degli Interni, ha detto che sta valutando la possibilità di revocare la residenza permanente di Barghouti in Israele. Amnesty International esprime tutt’ora preoccupazione.
Il movimento BDS ha portato avanti una sua battaglia per la Palestina ispirata dal modello anti-apartheid sudafricano. Barghouti, puntando sulla non violenza e su una lotta basata sulle leve finanziarie e culturali, probabilmente ha messo Israele più in difficoltà di quanto non abbiano potuto fare alcune azioni armate. BDS ha avuto critiche, ma ha anche guadagnato molti consensi, specie in diverse Università e college occidentali e fra molti intellettuali. I giudizi negativi si concentrano su alcuni aspetti della soluzione proposta per risolvere il conflitto. Una soluzione che rifiuta il concetto dei ‘Due Stati’.
La ‘Legge del ritorno’ che consentirebbe alla diaspora palestinese del 1948 di reinsediarsi in Israele, interpretata da Haaretz: «Diritti umani e la giustizia dei palestinesi. Ma questo messaggio idealistico e universalista è una cortina di fumo filosofica, dietro la quale si nasconde una brutta agenda nazionalista: l’abolizione dello Stato di Israele e la sua sostituzione con uno Stato della Grande Palestina a maggioranza araba. In caso di successo, il BDS quasi certamente produrrebbe l’espulsione della maggior parte degli ebrei israeliani dalla loro patria». Contro pulizia etnica, insomma rispetto a quanto sta emergendo clamorosamente a Gaza e in Ciosgiordania da parte israeliana.
Ed ecco che anche sotto la vernice del boicottaggio emerge una realtà geopolitica sotterranea, con battaglie nazionalistiche poco note e sempre occultate. Ma adesso il tempo sembra stia scadendo. Ieri notte così apriva la sua edizione on-line il New York Times:
«L’esercito israeliano ha poco tempo per portare a termine le sue operazioni a Gaza, prima che la rabbia tra gli arabi della regione e la frustrazione negli Stati Uniti e in altri Paesi, per il crescente numero di vittime civili, limitino l’obiettivo di Israele di sradicare Hamas, hanno detto funzionari statunitensi».