L’idea che l’industria militare sia una trave portante del sistema economico e occupazionale è solo un mito con bugie. Primo, il mito che gli investimenti e la crescita dei fatturati nell’industria militare assicuri importanti ricadute occupazionali. Secondo, l’innovazione tecnologica in campo militare e lo sviluppo nei settori civili. «Entrambe queste convinzioni corrispondono al vero solo in parte. E la seconda si è dissolta con la fine della Guerra Fredda e lo sviluppo della microelettronica».
«Ricordate la fake news dei dieci mila occupati in più nel settore aerospaziale se l’Italia avesse partecipato al programma degli F-35?». A sostenerla nel 2006 autorevoli voci del Governo e dello Stato Maggiore. Per convincere politici, parlamentari, sindacalisti e opinione pubblica delle ricadute in termini di lavoro. Difficile altrimenti, giustificare una spesa allora stimata in circa 15 miliardi di euro per l’acquisto di 131 nuovi caccia-bombardieri della Lockheed Martin e per l’allestire le linee di assemblaggio nel sito di Cameri (Novara).
A distanza di anni possiamo tirare le somme…e verificare chi ha barato. Secondo l’osservatorio Milex, il solo acquisto di 90 F-35 e la costruzione del sito industriale di Cameri è costato all’incirca 18,2 miliardi di euro. Una cifra che è possibile trovare anche nel Documento pluriennale della Difesa 2022.
Nel sito di Cameri, non solo si è lontanissimi dalle ricadute occupazionali ‘promesse’, ma in questi 15 anni il totale dei lavoratori nel Gruppo si è, al contrario, ridotto di oltre 10mila (meno 24%), anche per effetto del saldo negativo in Italia, tra cessioni e nuove acquisizioni di società controllate e/o rami d’azienda. II settore aeronautico (velivoli e aero-strutture) di Leonardo che include il personale impegnato nel programma F-35 sia a Cameri che altrove, ha fatto registrare – nello stesso periodo – un calo di ben 2.208 unità (meno 17%).
Il fatto che l’aumento delle spese militari e dei programmi di riarmo non siano giustificabili da un punto di vista puramente economico e occupazionale, lo confermano i dati nei rapporti AeroSpace and Defence Industries Association dal 2003 ad oggi. In uno spazio temporale di 40 anni, questo settore è passato da 579 mila nel 1981 (il massimo raggiunto) a poco più di 537 mila occupati nel 2021 (meno 7,2 per cento), dopo il sensibile declino registrato per 5 anni di fila – dal 1991 al 1996 – in conseguenza della fine della Guerra Fredda.
Ma se l’andamento dell’occupazione nei 40 anni registra un leggero calo, il fatturato del settore risulta più che triplicato. Disaccoppiamento tra numero di occupati (meno 7,2%) e andamento del fatturato (più 366%)
Ma il risultato più sorprendente emerge disaggregando i dati del settore aerospaziale tra militare e civile. Mentre i lavoratori del settore occupati in campo militare sono passati tra il 1981 e il 2021 da 382 mila a circa 175 mila (54% in meno); l’occupazione in campo civile è, invece, cresciuta da 197 mila a quasi 343 mila (l’84% in più). Dietro ai numeri c’è il successo del più importante programma industriale e tecnologico sviluppato a livello europeo.
Non aver partecipato, come partner paritario dei francesi, spagnoli e tedeschi alla realizzazione di Airbus, è costata la marginalità dell’industria italiana nella ideazione, sviluppo e produzione di aerei civili.
Lezione americana
Nel 1944 l’industria aeronautica americana raggiunse il picco di produzione, con quasi centomila aerei militari prodotti e 16 miliardi di dollari di fatturato. L’occupazione nel settore a fine 1943 era salita a un milione e 458 mila addetti. Nel 1968, sulla nuova spinta al riarmo per la guerra in Vietnam, che l’industria aerospaziale con un milione e 502 mila occupati e poi giù, e una nuova crescita durante l’amministrazione di Ronald Reagan.
Nel 1990, con la fine della Guerra Fredda, si verifica una contrazione dei fatturati accompagnata da un crollo verticale dell’occupazione.
Negli ultimi vent’anni mentre il fatturato complessivo dell’industria aerospaziale americana è cresciuto del 166 per cento (spese militari USA +170%) il numero totale degli occupati è ulteriormente diminuito del 13%. La decrescita dei posti di lavoro è maggiore nelle attività destinate a produzioni militari (il 35%del totale del settore aerospaziale americano).
Nelle prime dieci multinazionali al mondo per fatturato militare profitti alle stelle, ma sempre meno occupati dal 2002 al 2016. Fatturato totale dei dieci gruppi cresciuto del 60% (e quello militare del 74%), i loro profitti sono aumentati del 773%, mentre il numero di occupati si è ridotto del 16 per cento.
I costi unitari dello Joint Strike Fighter F35. Rispetto a quelli del precedente caccia multi-ruolo F16 (costo unitario di 14,6 milioni di dollari) un caccia multi-ruolo F35, al 12° lotto di produzione, costa mediamente non i 78 milioni di dollari dichiarati, ma oltre cento milioni di dollari (7 volte tanto). In Italia, addirittura, nelle proposte dei Capi di Stato Maggiore di Esercito, Marina e Aeronautica alle Commissioni Difesa di Camera e Senato i 19 aerei F-35A d’acquistare in più costerebbero 190 milioni di euro ciascuno e i 7 aerei F-35B ben 215 milioni di euro ciascuno.
Un altro esempio è quello delle nuove portaerei americane in costruzione, il cui costo unitario previsto è di 12 miliardi e 900 milioni di dollari (oltre un miliardo/anno di spese per mantenimento), rispetto ai 4,5 miliardi di dollari delle prime portaerei della classe Nimitz (3 volte tanto).
Stesso discorso per la produzione di carri armati. Mentre un tank M60 costava negli anni ’70 intorno a 700mila dollari, il tank Abrams che lo ha sostituito costa mediamente 8,9 milioni di dollari (12 volte tanto). Se un carro armato italiano C1 Ariete costava negli anni ’90 4,4 milioni di euro, un carro armato tedesco Leopard 2A7+ MBT, il modello più moderno disponibile di questa generazione, ha un prezzo tra i 13 e 15 milioni di euro (3-4 volte tanto).
Nella lista della spesa dei Capi di Stato Maggiore di Esercito, Marina e Aeronautica il costo unitario indicato per i cento Leopard richiesti in sostituzione degli Ariete è di 30 milioni di euro.
Nell’ulteriore espansione delle spese militari nel mondo e, in particolare dei paesi NATO e per effetto della guerra in Ucraina, è facile prevedere per le imprese leader di Francia, Germania, Gran Bretagna, Italia, Spagna e Svezia, un’accelerazione di concentrazioni su scala europea e ‘interatlantica’ (esempio, Rheinmetall e Leonardo negli armamenti terrestri, Lockheed Martin e Rheinmetall in campo aeronautico).
Invertire la tendenza al riarmo e tornare a parlare di riconversione. Esiste un’ampia letteratura, sostenuta da studi specifici in cui si dimostra quanti posti di lavoro in più si creano in altri settori negli USA rispetto a un investimento di un miliardo di dollari in spese militari. Investendo la stessa cifra nel campo delle telecomunicazioni (banda larga), nel settore sanità (tecnologia informatica), nel settore elettrico (smart grid). Con la creazione, rispettivamente di 49 mila, 21 mila, 24 mila nuovi posti di lavoro.
La realtà dei numeri dovrebbe, ragionevolmente, far superare le riserve ancora esistenti di natura sindacale. Una politica industriale attenta alle implicazioni occupazionali dovrebbe, quantomeno, opporsi al processo di ridimensionamento e marginalizzazione delle attività civili in Leonardo, iniziato dal Gruppo Finmeccanica.