Con il 49,5% dei voti, Erdogan va al secondo turno in una posizione di forza, anche perché potrà avere il sostegno del candidato di estrema destra terzo classificato, Sinan Ogan. Le possibilità che l’opposizione inverta il pronostico sono ridottissime anche perché il ballottaggio non modificherà le condizioni di partenza: Erdogan, come ricorda un’analisi di Philippe Génie di Le Figaro, ha minato i fondamenti della democrazia laica in Turchia, ha asservito le istituzioni, ha spinto la religione nello spazio pubblico e ha alimentato una potente rete di clientele in tutta la società, dai media alla magistratura, dai militari alle imprese.
«È difficile fare l’innocente quando il 90% delle emittenti televisive trasmette solo il tuo messaggio e ti dà cento volte più spazio in onda dei tuoi rivali. Ma i turchi stessi hanno in parte corretto questo handicap con una massiccia affluenza alle urne».
Il risultato del suo principale avversario, 44,88%, merita di essere sottolineato, soprattutto se si confronta la presenza mediatica dei due avversari. Il governo controlla il 90% della stampa e a Erdogan sono state dedicate 32 ore di trasmissione sul canale Trt contro i 32 minuti di Kemal Kiliçdaroglu.
La coalizione formata dall’Akp e dai suoi alleati, tra cui il Partito d’Azione Nazionalista (Mhp) di estrema destra, ha ottenuto 322 dei 600 seggi, contro i 213 dell’opposizione unita e i 63 della coalizione di sinistra filo-curda. A sorpresa, la coalizione al governo è risultata in testa nelle regioni sud-orientali colpite dal duplice terremoto del 6 febbraio, nonostante le critiche alla mancanza di reattività e coordinamento del governo nella gestione dei soccorsi, la mancata osservanza delle norme antisismiche, la corruzione, gli scandali. Anche la pessima situazione economica (inflazione al 44% ad aprile su media annua) non ha penalizzato Erdogan.
«Gli elettori ritengono che la sua politica economica sia un fallimento, ma non vedono nemmeno Kemal Kiliçdaroglu come un politico in grado di risolverla», analizza — in un’intervista a Le Monde — Ozer Sencar, direttore dell’istituto di sondaggi MetroPoll, l’unico ad aver dato, tra il 4 e il 7 maggio, punteggi identici ai risultati annunciati martedì. «Gli europei e gli alleati della Nato dovrebbero essere preparati a questo, ma non si dispiacerebbero di un presidente in qualche modo soddisfatto dalla sua nuova legittimità», commenta Le Monde.
Al punto di non auspicare, né sostenere, la vittoria di Kemal Kiliçdaroglu, il leader dell’opposizione? Domanda provocatoria, ma non campata per aria, come nota Suzanne Lynch su Politico Europe (in un articolo dal titolo emblematico: «Perché l’Ue ama Erdogan»): «Erdogan al potere, soprattutto per una piega sempre più autoritaria, ha permesso all’Ue di eludere la questione dell’eventuale adesione della Turchia». Il «Gandhi turco» riaprirebbe la road map per l’ingresso della Turchia nella Ue, non solo come aspirazione politica, sopratutto perché vorrebbe ristabilire quei valori laici e democratici che Erdogan ha calpestato in questi anni e che sono stati l’argomento principale degli europei per chiudere le porte.
Inoltre Kiliçdaroglu sarebbe propenso a ridiscutere gli accordi che la Turchia ha firmato in questi anni per tenere milioni di profughi sul proprio territorio in cambio di generosi finanziamenti. Infine, ma è forse il principale argomento, Kiliçdaroglu non avrebbe — almeno a inizio di mandato — quella capacità di mediazione, corroborata dalle relazioni personali, che Erdogan ha dimostrato di possedere nei conflitti in Ucraina e Siria e nella complicata situazione in Libia.
Giocando su più tavoli, coltivando ambizioni da grande potenza regionale, l’autocrate di Ankara (quello che il presidente Draghi definì «dittatore», quello della sedia tolta a Ursula von der Leyen) si è dimostrato utile e funzionale: alla Ue e alla Nato.
Superfluo notare due pesi e due misure quando si tratta di valori laici e democratici e quando l’Ue e la Nato stabiliscono gerarchie di affidabilità e amicizia, nonché i tempi per la distribuzione dei biglietti d’ingresso. Ci sono anche questioni di fondo — il futuro di Cipro, la maggioranza musulmana della popolazione turca, la pesante situazione economica — che comunque allontanano la prospettiva di un’adesione chiunque vinca il ballottaggio. Questioni che esistevano anche prima della svolta autoritaria di Erdogan. Politico ricorda d’altra parte la posizione assunta a suo tempo dal presidente Usa, Joe Biden, che nel 2019 auspicò esplicitamente un cambio di regime.
«Per alcuni nell’Ue potrebbe essere preferibile avere un leader autoritario e un rapporto più transazionale con la Turchia, piuttosto che affrontare seriamente la questione dell’adesione», ha dichiarato a Politico Galip Dalay, esperto di Turchia presso il think tank Chatham House. «Una Turchia democratica rappresenterebbe una questione molto più complicata per l’Europa», ha aggiunto.