
Il presidente Lula raggiunge la capitale nella notte e si dirige verso i palazzi devastati, mentre il Stf richiede la consegna dei filmati delle telecamere dei negozi e il Congresso annuncia l’avvio di una commissione d’inchiesta. È la prima risposta coordinata dei tre poteri dello Stato. Intanto, nella notte tra domenica e lunedì vengono bloccati altri bus di bolsonaristi diretti a Brasilia, racconta Federico Nastasi sul Manifesto. L’ex presidente Bolsonaro, che capisce l’aria che tira, twitta dalla Florida, e prende le distanze dall’assalto con mezze parole e poi si ricovera in ospedale.
La stampa internazionale, quasi assente durante l’assedio, raggiunge Brasilia. Tra i cronisti arrivati a Planalto, si riconoscono gli stessi volti incontrati una settimana fa, dove Lula assumeva il ruolo di 39° presidente del paese. Il luogo è lo stesso, ma attorno è tutto cambiato. E le distruzioni peggiori sono quelle non attribuibili ai vandali. Nel pomeriggio parla il ministro della giustizia: «Nelle forze armate ci sono persone che hanno agito guidate dall’ideologia politica, non dal senso dello Stato. Abbiamo i nomi di chi ha finanziato gli accampamenti, ha comprato i viveri e pagato gli hotel. I colpevoli non resteranno impuniti».
Gli arresti sono arrivati a 1.200, 1.500. Crescono assieme alle evidenze di cooperazione delle forze armate con parte dei manifestanti. Quanto può fidarsi il paese delle proprie forze armate? Questo è il rompicapo che deve risolvere non Lula, ma la quarta democrazia del mondo, trasformata nel laboratorio degli esperimenti politici dell’estrema destra. E di quelle forze armate, fatte e fattesi partito di governo negli ultimi quattro anni.
Il giorno dopo l’assalto, la democrazia brasiliana cerca di rialzarsi, individuare e punire i colpevoli ma soprattutto, alzare la vigilanza rispetto alla violenza emersa e alle sue pericolose complicità istituzionali. Manifestazioni a difesa della democrazia sono convocate in tutto il paese, e i richiami internazionali sono molti. Capitol Hill a Washington, l’assalto alla sede della Cgil a Roma, le bombe di Natale in Brasile. «Le democrazie sono condannate a convivere con le minacce di terrorismo di estrema destra?».
Ma almeno alcune cose ora sono chiare. L’assalto alle istituzioni democratiche del Brasile, è stato pianificato con cura nelle settimane precedenti. Com’era prevedibile, il movimento guidato Jair Bolsonaro, non ha smobilitato, né è stato ‘normalizzato’ dentro le istituzioni, dentro il parlamento. «Radicalizzazione di un movimento che, potendo contare su ramificate complicità istituzionali, simpatie tra le Forze Armate, grandi risorse economiche, oltre alla formidabile rete di coordinamento organizzativo e morale delle chiese evangeliche, non ha mai smesso di invocare l’intervento militare», denuncia Gianni Fresu, ex presidente di ‘International Gramsci Society Brasil’.
«L’assalto alle istituzioni democratiche, pianificato con cura nelle settimane precedenti, ha potuto contare sul sostegno di una fitta rete di facoltosi soggetti economici e imprenditoriali legati al presidente uscente, le cui responsabilità politiche sono evidenti».
Ma a superare lo scoramento, Fresu segnala tre importanti dati politici positivi che sembrano emergere: 1) nonostante le continue sollecitazioni a prendere il potere, le Forze Armate (per ora) hanno dimostrato lealtà costituzionale; 2) i tre poteri fondamentali hanno reagito alla minaccia sovversiva con un’unica voce; 3) la società democratica brasiliana si è immediatamente mobilitata a ogni livello, isolando e delegittimando ogni tentativo golpista.
Come il primo fascismo, il bolsonarismo teorizza e pratica l’idea della conquista militare, ricorrendo ai metodi dell’assalto, dell’imboscata e del terrorismo squadristico, con la dichiarata ambizione di cancellare dalla vita politica nazionale nemici e avversari, anche solo potenziali. La citazione de «Il popolo delle scimmie», scritto da Antonio Gramsci nel 1921, in cui descrive la caratteristica più marcante dello squadrismo fascista: «Sostituire la violenza privata all’autorità della legge, esercitandola caoticamente e brutalmente nella sollevazione di strati sempre più estesi di popolazione radicalizzata contro lo Stato e le sue regole».
Cambi qualche parola, populismo violento invece di squadrismo e con un salto di 100 anni ti trovi nella peggiore attualità. Terribilmente moderno. Tanto da far paura.
Dopo l’assalto dei suoi sostenitori alle istituzioni brasiliane, la presenza di Bolsonaro negli Stati Uniti sta diventando sempre più imbarazzante per il governo americano. Ora diversi politici, sia brasiliani che statunitensi, stanno chiedendo al governo americano di espellere Bolsonaro dal paese affinché possa rendere conto in Brasile del suo coinvolgimento con quanto accaduto.
Bolsonaro era partito per Orlando in Florida il 29 dicembre, due giorni prima che scadesse il suo mandato presidenziale, e si trova negli Stati Uniti con un visto riservato a capi di stato e di governo, riferisce Reuters. Questi visti di solito scadono al termine della carica, ma la situazione di Bolsonaro non è chiara, perché lui è entrato negli Stati Uniti quando ancora era ufficialmente presidente del Brasile.
Ci sono volute più di 2 ore perché qualcuno dell’amministrazione Biden prendesse la parola su quanto stava avvenendo in Brasile. È stato il consigliere per la sicurezza nazionale Jack Sullivan, che ha twittato: «Gli Stati uniti condannano ogni tentativo di minare la democrazia in Brasile». Ma il problema è Bolsonaro in casa. «A quasi 2 anni dal giorno in cui il Campidoglio degli Stati uniti è stato attaccato dai fascisti – ha scritto su Twitter Alexandria Ocasio-Cortez – vediamo movimenti fascisti all’estero tentare di fare lo stesso in Brasile. Gli Stati uniti devono smettere di concedere rifugio a Bolsonaro in Florida».
Speriamo che la sindaca leghista di Anguillara veneta non tiri fuori la contestatissima cittadinanza onoraria concessa nel 2021 a Jair Bolsonaro, famiglia ordinaria di quelle terre. Magari, come già accaduto, col sostegno di qualche viceporesidente del consiglio.
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