
A unire l’argentino Papa Bergoglio al brasiliano Luiz Inácio Lula da Silva, oltre alle comuni origini sud americane, tanti temi di contenuto, dalla lotta alla fame al valore del multilateralismo, fino a quella difesa dell’Amazzonia a cui il papa ha dedicato addirittura un Sinodo, nel 2019, e che Lula insiste a considerare prioritaria, nonostante problemi già emergi nel suoi stesso governo. Sintonia piena anche sulla guerra in Ucraina, rispetto a cui i due leader condividono un comune impegno per la pace, decisamente minoritari rispetto alla valutazione geopolitiche dei torti e delle ragioni, o più nascostamente, delle convenienze di schieramento. Papa Francesco e Lula ne avevano già parlato nella telefonata del 31 maggio, nella quale il presidente brasiliano aveva riferito dei suoi colloqui con altri leader alla ricerca di una soluzione negoziata al conflitto.
Ne hanno discusso nei 45 minuti del loro incontro privato: «un positivo scambio di vedute su alcuni temi di comune interesse, quali la promozione della pace e della riconciliazione» (oltre alla lotta contro la povertà, il rispetto per i popoli indigeni e la protezione dell’ambiente) ha riferito la sala stampa della Santa Sede.
Parlando al Corriere della Sera all’inizio della sua visita ufficiale a Roma, Lula era stato chiarissimo: «Credo che ci sia troppa poca gente che parli di pace. La mia angoscia è che con così tante persone che soffrono la fame nel mondo, con così tanti bambini senza cibo, invece di occuparci di come risolvere le disuguaglianze ci stiamo occupando di guerra».
«Siamo in un tempo di guerra e la pace è molto fragile», ha dichiarato il papa, che ha donato a Lula un bassorilievo in bronzo proprio dal titolo ‘La pace è un fiore fragile’. Tra i due, anche lo spazio sul reciproco stato di salute. «Sono ancora vivo» la sintesi di Bergoglio. Parole che, nel loro incontro nel 2020, avrebbe potuto benissimo pronunciare Lula, uscito dal carcere di Curitiba appena tre mesi prima e molto grato per la solidarietà che il papa gli aveva espresso a più riprese.
Lula non ha dimenticato neppure la vicinanza mostrata, durante la prigionia, dal sociologo Domenico de Masi e dall’allora eurodeputato e oggi sindaco di Roma Roberto Gualtieri, ai quali il presidente ha voluto ricambiare la visita, incontrando il primo martedì e il secondo, in Campidoglio, al termine della giornata di ieri, ricostruisce Claudia Fanti sul Manifesto. Ma tante anche le implicazioni politiche e di Stato del suo viaggio in Italia, secondo partner commerciale europeo del Brasile dopo la Germania e il settimo a livello mondiale. «Siamo il paese con più italiani, secondo solo all’Italia stessa. Abbiamo 30 milioni di discendenti italiani», ha spiegato Lula al Corriere, ricordando gli «ottimi rapporti con il movimento sindacale, gli intellettuali e le imprese» del nostro paese.
Ne aveva parlato ieri mattina, anche al Quirinale con il presidente Mattarella. Tanti brasiliani di non lontanissime origini italiane, compreso il discusso ex presidente Jair Bolsonaro a cui si addebita l’assalto fallito alle istituzioni dell’8 gennaio scorso, e tutt’ora duro oppositore di ogni tentativi di riforma democratica del sistema sociale ed economico brasiliano. Un colloquio, tra i due capi di Stato, centrato sul rafforzamento, «sotto ogni profilo», delle relazioni tra i due paesi. Italia-Brasile oggi, secondo Lula, «al di sotto del loro potenziale», legato anche al complicato accordo tra Unione europea e Mercosur, il mercato comune dell’America meridionale rispetto al quale Lula non ha mai nascosto le sue critiche.
Proprio guardando al rafforzamento delle relazioni tra Italia e Brasile che Lula aveva chiesto un inc0ntro anche con la presidente del Consiglio Meloni, incontro che secondo la stampa brasiliana sarebbe stato accettato dalla premier solo all’ultimo. Per lei, frequentatrice della ‘Conservative Political Action Conference’, l’organizzazione di estrema destra più grande del mondo, non deve essere stata una decisione facile ma di fatto dovuta, incontrare il leader del progressismo latinoamericano, al cui insediamento, unica tra i capi di stato e di governo dei più grandi paesi europei, non aveva inviato neanche una delegazione. Gesto pesante e fuori misura del nuovo ruolo e responsabilità.
Memoria di ferite non lontanissime e ancora parzialmente dolenti, prima della premier della ‘Conservative Political Action’, Lula aveva incontrato la segretaria del Pd Elly Schlein, definito «un simbolo straordinario di lotta, di riscossa e di rivincita delle persone più deboli su una destra estrema che anche in Brasile ha spaccato la società e di essersi confrontata con lui sulle sfide comuni sui grandi temi globali: democrazia, contrasto ai cambiamenti climatici e alle disuguaglianze».
Un commento, emerge facilmente leggendo i fatti da sinistra, in cui non sfugge l’assenza di riferimenti alla pace, su cui la posizione di Lula e forse anche quella del Papa, risulta è ben diversa da quella del Pd.
«Mi sento indignato con i presunti difensori della libertà di stampa nel mondo – afferma Lula – non è possibile che stia accadendo quello che vediamo: Julian Assange è in carcere perché ha denunciato lo spionaggio americano. Sarà mandato negli Stati uniti dove è probabile che prenderà l’ergastolo, neanche il giornale che ha pubblicato i suoi articoli lo difende, e questo si chiama codardia. Il lavoro che ha fatto meriterebbe rispetto ed elogio da parte di qualsiasi giornalista. Lui ha avuto il coraggio di divulgare e denunciare lo spionaggio Usa, perfino sulla presidente Dilma, come Kirschner in Argentina o Angela Merkel in Germania… E perché la stampa resta così tranquilla mentre questo cittadino è in carcere e sarà estradato? È importante che ci uniamo per dire che bisogna liberare Julian Assange e che ci dicano qual è il crimine che ha commesso. Quindi, voglio esprimere tutta l’indignazione per la mancanza di solidarietà con un giornalista che ha denunciato quello che tutti i giornalisti dovrebbero denunciare».
L’indignazione dovuta: indignazione per la guerra, per le diseguaglianze, per i fiumi di soldi spesi in armi, piuttosto che per combattere la fame, ma per fermare questa guerra, non è possibile che le condizioni vengano solo da una parte, come vorrebbero Usa e Ue: «Un accordo di pace non è una resa, ma vuol dire che entrambe le parti debbano ottenere qualcosa, altrimenti è un’imposizione. Chi sa cosa è necessario per arrivare a un accordo sono gli ucraini e i russi. Il Brasile ha condannato l’occupazione territoriale dell’Ucraina, che sta portando morte e distruzione, ma la Russia non è certamente l’unico Paese ad essere invasore… pensiamo agli Usa in Iraq o Inghilterra e Francia con la Libia».
«Prima fermare la guerra e poi sedersi per parlare fino a trovare un denominatore comune». «L’Unione europea avrebbe le condizioni per impegnarsi per la pace, ma è totalmente coinvolta nella guerra… Deve arrivare il momento in cui la ragione prevarrà». Il presidente brasiliano crede in un terzo fronte non allineato che pur riconoscendo il crimine dell’invasione Russa, possa farsi portatore di un processo diplomatico per la pace: Brasile, Cina, India, Indonesia, Messico, Argentina, insieme ad alcuni paesi dell’Africa, con il sostegno fondamentale del papa e della sua personalità autonoma, dal forte spessore giuridico-morale, sottolinea Paolo Vittoria.
Non investire in armi e guerra, quindi, ma sulla pace e l’educazione: «Per quanto non abbia un diploma universitario, sono il presidente del Brasile che ha maggiormente investito nell’università, abbiamo costruito più campus, investito nell’estensione universitaria (terza missione), scuole tecniche e istituti federali… Ora investiamo su un Centro nazionale di ricerca, stiamo facendo scuole a tempo pieno per garantire che i giovani restino il giorno intero, vogliamo alfabetizzare gli studenti nei giusti tempi, visto che dopo la pandemia abbiamo un’enorme quantità di bambini e ragazzi che non sanno né leggere né scrivere… Nel mio governo è proibito utilizzare la parola ‘peso’ quando si tratta di investimenti nell’educazione, il più sacro investimento che possiamo fare in Brasile, come in qualsiasi Paese del mondo, perché così si formano persone qualificate che possono aiutare il Paese ad essere più competitivo. Non esiste nessun modello di Paese che si sia sviluppato senza fare prima investimenti nell’educazione, una priorità insieme al lavoro e alla lotta alla fame».
«Dobbiamo costruire un’utopia in grado di sconfiggere l’utopia della destra secondo cui lo Stato non vale niente, lo Stato deve essere debole e l’iniziativa privata risolve tutto. Bisogna fare in modo che il transito delle persone sia tanto libero quanto quello economico. Il denaro circola tra tutti i Paesi senza mostrare il passaporto, ci vuole, quindi, più pazienza, più maturità per difendere i migranti. Persone che fuggono perché non sanno come sopravvivere. L’essere umano è per natura nomade. Alla ricerca di cosa mangiare e come lavorare». Ma precisa che «le differenze ideologiche con Meloni non riguardano la costruzione di relazioni diplomatiche, come in qualsiasi altro Paese del mondo». Completamente assente dal suo discorso invece qualsiasi riferimento a Bolsonaro.