
Iran 1979, la crisi degli ostaggi dell’ambasciata Usa
«È uno scenario alla John le Carré: cinque prigionieri da un lato, cinque dall’altro, portati nello stesso luogo e nello stesso momento per uno scambio, mentre sei miliardi di dollari erano versati su alcuni conti bancari. La differenza è che nei romanzi gli scambi di prigionieri durante la guerra fredda avvenivano a Berlino, in Germania, mentre in questo caso tutto è successo a Doha, in Qatar, e i prigionieri sono statunitensi e iraniani», cita e ricostruisce Pierre Haski, osservatore francese su Internazionale, svelandoci qualche segreto.
L’accordo ha fatto scalpore, prima di tutto perché era da tempo che non arrivavano notizie positive sui rapporti tra Washington e Teheran. Ma negli Stati Uniti c’è chi non ha gradito e rimprovera a Biden di aver pagato un riscatto, mettendo in pericolo tutti gli americani. Anche se è lecito sperare che ci saranno ripercussioni nella trattativa sul nucleare iraniano, al momento bloccata. Ma i segreti da svelare sono molti.
Il lato finanziario della questione è abbastanza ‘insolito’, per usare un eufemismo. Quelli trasferiti, infatti, non sono soldi statunitensi, ma il frutto della vendita di petrolio iraniano alla Corea del Sud, che finora non era riuscita a pagarlo a causa delle sanzioni. I sei miliardi di dollari sono stati versati su conti svizzeri e quatarioti. Teheran potrà utilizzarli solo per comprare beni di prima necessità, come prodotti alimentari e medicine, ma resta il fatto che l’operazione suscita la rabbia dei repubblicani.
Washington aveva posto la liberazione dei cittadini statunitensi come condizione imprescindibile per qualsiasi accordo sul nucleare, afferma Haski. Un ostacolo eliminato, ma solo uno dei molti. La settimana scorsa Germania, Francia e Regno Unito, tre dei firmatari dell’accordo sul nucleare del 2015 stracciato da Trump, hanno fatto sapere che non cancelleranno le sanzioni contro Teheran, in scadenza il 18 ottobre, sostenendo che l’Iran sta infrangendo i termini previsti (l’arricchimento dell’uranio necessario per la realizzazione di un ordigno) e che le misure resteranno in vigore.
«Eppure lo scambio di prigionieri del 18 settembre dimostra che delle strade parallele sono ancora percorribili», sostiene Haski, ma di corsa. Prima delle presidenziali 2024, e del possibile ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca. Teheran sa perfettamente che Trump, una volta eletto, annullerebbe qualsiasi accordo, come ha già fatto nel 2018. Altra critica, più morale che politica, lo scambio dei prigionieri (e di soldi), a 48 ore dall’anniversario della morte di Mahsa Jina Amini, che era stata arrestata dalla polizia religiosa con l’accusa di aver indossato il velo in modo scorretto.
La lettura dei fatti di Farian Sabahi sul Manifesto, aggiunge dettagli. Diplomazia in itinere a modalità alterne, con aperture e colpi duri. Il presidente iraniano Ebrahim Raisi a New York per partecipare all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite. Mentre due giorni fa, l’amministrazione Biden ha annunciato sanzioni contro il ministro dell’Informazione dell’Iran e l’ex presidente Ahmadinejad.
È dal 1979 che la leadership della Repubblica islamica fa ampio uso della cosiddetta ‘diplomazia degli ostaggi’. Il 4 novembre di quell’anno, un gruppo di studenti prese d’assalto l’ambasciata statunitense a Teheran chiedendo che lo scià Muhammad Reza Pahlavi, a New York da pochi giorni, fosse estradato in Iran per essere processato per le violazioni dei diritti umani durante il suo regno. Una manciata di ostaggi fu liberata subito (gli afroamericani e le donne), mentre 55 di loro furono trattenuti per 444 giorni.
L’amministrazione Carter provò a liberarli con l’operazione ‘Artiglio dell’aquila’, fallita miseramente.
Di fatto, Carter si giocò un secondo mandato alla Casa Bianca, lasciando spazio alla presidenza Reagan e Bush primo.
Ora, resta da vedere come queste operazioni con l’Iran peseranno sulla vicine presidenziali, con l’incubo diffuso del ritorno di un Trump vendicativo.