Le cronache quotidiane raccontano di decessi (i feriti non fanno notizia anche se gravi), di bambini affamati e resi orfani dei bombardamenti israeliani (anche di loro si parla poco ormai), di case distrutte, di un futuro incerto. Una delle tante organizzazioni umanitarie che si occupano della striscia calcola che con uno sforzo enorme – soldi e volontà- se la guerra finisse domani si potrebbe riparare i ‘danni’ entro la fine del secolo: ottanta anni più o meno da oggi.
Ci sarà una tregua? Ci sarà il rilascio degli ostaggi ebrei e dei prigionieri palestinesi nelle carceri israeliane? Si otterranno le basi per la creazione di uno stato palestinese accanto a Israele? Gli occhi di mezzo mondo guardano a Doha e ascoltano le dichiarazioni dei tanti protagonisti del mercanteggiamento da souk mediorientale. Le cose vanno nella direzione giusta, dice qualcuno. Assolutamente no, ribattono altri.
Ieri un alto funzionario di Hamas ha detto alla tv Al Jazeera in Qatar che «l’atmosfera di ottimismo, come se ci fosse un riavvicinamento per un accordo di scambio di prigionieri, non riflette la realtà». Secondo lui, il primo ministro israeliano Netanyahu non vuole nemmeno prendere in considerazione le principali richieste di Hamas: la cessazione dei combattimenti, il ritiro completo delle forze israeliane e il ritorno degli sfollati nel nord della Striscia di Gaza.
«La continua uccisione del popolo palestinese per fame nel nord della Striscia di Gaza è un crimine di distruzione di massa e minaccia l’intero processo di negoziati».
Tradizionalmente un negoziato avviene tra le persone interessate a raggiungere un accordo, a comprare un prodotto. Nel grande mercato – vita o morte – in corso, i diretti protagonisti – il governo d’Israele e Hamas – devono guardare alle pressioni dei popoli che rappresentano e anche alle pressioni esterne dei paesi mossi da altri interessi e che vanno dall’impatto economico del loro conflitto alla possibilità sempre più vicina che possa provocare un’estensione della guerra a tutta la regione e anche oltre.
Netanyahu, sostenendo molti a Tel Aviv, ha scelto di mandare qualcuno in Qatar non tanto perché gli sta bene il negoziato sulla guerra ma perché sotto le pressioni crescenti dei parenti degli ostaggi che vogliono la loro liberazione. Hamas, dall’altra parte, vuole guadagnare non soltanto la propria sopravvivenza politica ma anche perché sente montare la rabbia dei palestinesi che stanno pagando per l’azione terroristica contro la popolazione civile israeliana.
La delegazione israeliana è andata in Qatar con un pacchetto di proposte-idee concordate a Parigi e approvate a Tel Aviv annunciando che «ora la palla è nel campo di Hamas». A giudicare dalle anticipazioni, le proposte israeliane concordano poco con le richieste di Hamas e il governo di estrema destra di Netanyahu approfitta di questi giorni non solo per andare avanti con l’attività militare a Gaza ma anche per continuare a ritmo accelerato la colonizzazione della Cisgiordania.
Giovedì il ministro di estrema destra Bezalel Smotrich ha annunciato che a seguito delle consultazioni tenute con il primo ministro Netanyahu ei ministri Gallant e Dermer, e alla luce del recente attacco terroristico vicino a Ma’ale Adumim, il governo israeliano intende costruire 3.344 nuove unità abitative negli insediamenti della Cisgiordania. Nelle prossime settimane saranno approvati i piani per Ma’ale Adumim, Efrat e Kedar: rispettivamente Efrat: 700 unità abitative a nord dell’insediamento; Ma’ale Adumim: circa 2.350 unità; e Kedar: 330 unità abitative per espandere l’insediamento verso sud-est.
Si negozia, dunque, si allargano le colonie e si prepara l’assalto finale a Rafah e a quella parte della striscia dove è stata costretta a concentrarsi buona parte della sua popolazione. Per Netanyahu, ‘l’operazione durerà settimane’. Secondo lui, «gli Usa sono d’accordo con Israele sull’obiettivo di distruggere Hamas e liberare gli ostaggi ma come farlo spetta a noi, a me, e al gabinetto eletto». Neppure agli ex generali aggregati nel gabinetto di guerra.
Parlando ieri alla CBS americana ha confermato che i negoziati in corso con Hamas sono difficili e distanti dal compromesso che lui -e solo lui- ha deciso. «Se il gruppo scende dalle sue affermazioni deliranti… avremo i progressi che vogliamo…Hamas ha iniziato con richieste folli. È troppo presto per dire se li hanno abbandonati. Non sono su un campo da baseball o addirittura in città, sono su un altro pianeta”, ha aggiunto».
Fonti americane, con toni più professionali, mostrano un atteggiamento più ottimista anche se sembrano sicuri che Israele e Hamas possano essere raggiunte prima del Ramadan, la festa islamica di un mese che comincia intorno al 10 marzo. E in tempo per fermare il nuovo allargamento della guerra prevista da Israele. Da Rafah verso nord.