«Il sistema di colonizzazione, che si basa sulla distruzione dei diritti dei palestinesi, celebra la sua vittoria mentre noi israeliani siamo in lutto»
Sotto la copertura dell’orrore collettivo per il pogrom di Hamas del 7 ottobre, sotto la copertura del lutto, della sofferenza e dell’ansia per il destino degli ostaggi, le milizie dei coloni israeliani stanno espandendo i loro attacchi contro i pastori palestinesi in Cisgiordania. Stanno anche cacciando i contadini dalle terre, dai frutteti e dagli oliveti, spesso con l’appoggio dell’esercito.
Un processo trentennale ha trovato l’opportunità per avvicinarsi alla sua logica conclusione: l’espulsione alla luce del sole in vista della completa “pulizia” di circa il 60 per cento del territorio cisgiordano, cacciando la popolazione originaria del posto. Sta succedendo in ogni casa, tenda e strada che la burocrazia discriminatoria dell’Amministrazione civile israeliana non abbia ancora distrutto, e dove le ordinanze militari non sono riuscite a impedire alle persone di restare nei loro villaggi, che esistevano prima del 1948, o di coltivare le terre.
I coloni arrivano armati e usano la violenza per realizzare l’obiettivo ufficiale: allargare lo spazio vitale degli ebrei a spese dei palestinesi. Il 28 ottobre un colono, un soldato fuori servizio, ha ucciso un quarantenne palestinese, Bilal Saleh, che stava raccogliendo le olive con i figli nel villaggio di Al Sawiya, a sud di Nablus. Circa due ore prima, alcuni coloni avevano cacciato dei raccoglitori da un oliveto tra i villaggi di Jalud e Qusra a est di Al Sawiya.
Il pomeriggio di quello stesso giorno, mentre cominciavo a scrivere questo pezzo, gli abitanti del villaggio di Zanutah, sulle colline a sud di Hebron, hanno lasciato le proprie case e le abitazioni nelle grotte. Nelle ultime settimane, più intensamente che mai, avevano subìto vessazioni. Gli era già stato negato l’accesso ai pascoli, cosa che metteva a rischio la loro sussistenza. Poi le minacce dei coloni sono diventate troppo dirette per poter restare.
Nella mattinata i coloni hanno invaso con il loro gregge una casa nel villaggio meridionale di Qawawis, mettendo in fuga una donna e i suoi bambini.
A mezzogiorno coloni e soldati sono entrati nel villaggio di Jinba, sono saliti sul tetto della moschea e hanno distrutto gli altoparlanti.
Alcuni coloni hanno attaccato le famiglie che vivono nella frazione tra il checkpoint di Metzudat Yehuda e la Linea verde (che ha segnato il confine tra Israele e Palestina tra il 1949 e il 1967) e hanno preso i loro telefoni.
A una ragazza di sedici anni è stato rotto un braccio, e tre delle persone aggredite sono state arrestate. Non è ancora chiaro se l’arresto sia stato compiuto dai coloni o dall’esercito.
Intorno alle 22 alcuni coloni sono stati avvistati mentre abbattevano alberi di olivo nei villaggi di Qabalan e Talfit, a sud di Nablus. Nelle stesse ore soldati e coloni hanno confiscato una telecamera di sicurezza dai pollai nella vicina Qusra.
Verso le 23 i coloni sono entrati nel villaggio di Susya e hanno intimato a diverse famiglie di lasciare le loro case.
Nel villaggio di Tuba coloni armati hanno fatto irruzione nelle case e le hanno vandalizzate. Tutti questi fatti, tra l’altro, sono solo una lista parziale.
Contrariamente a quanto vorrebbero farci credere gli estremisti, questi non sono atti di vendetta o di autodifesa contro i ‘pogromisti di Hamas’. Fanno parte di un piano progettato, calcolato e ben finanziato. Per anni la polizia non ha cercato chi aggrediva i villaggi, oppure ha manipolato le indagini. I soldati sono rimasti a guardare o a volte hanno partecipato. La magistratura se ne è disinteressata e di certo non ha fatto rispettare la legge. I ministri sono venuti a fare visite piene di sorrisi. È così che le autorità israeliane gestiscono le cose fin dagli anni settanta, e resta da vedere come evolverà la detenzione della persona sospettata di aver ucciso il palestinese Saleh.
Migliaia di palestinesi sono costretti ad affrontare questa violenza. Le milizie bloccano le strade e sabotano le forniture idriche. Minacciano le persone nelle loro tende, capanne e grotte. L’esercito è stato addestrato a proteggere i coloni in Cisgiordania, trascurando le comunità vicino a Gaza. E anche ora li accompagna nelle incursioni o addirittura porta a termine il lavoro per loro.
Il sistema di colonizzazione, che si basa sulla distruzione sistematica dei diritti dei palestinesi e sull’idea che siano un popolo inferiore, celebra la sua vittoria mentre noi israeliani siamo in lutto. La colonizzazione, che si è allargata sotto gli auspici degli accordi di Oslo e il processo di espulsione dall’area C, la zona della Cisgiordania sotto il controllo civile e militare degli israeliani, si estenderanno all’area A, quella sotto il controllo palestinese, e all’area B, a controllo misto?
Forse la domanda non è se succederà, ma quando. Quando le milizie armate dei coloni cominceranno a fare irruzione nelle zone rurali e urbane (e non solo a Nablus, ad Awarta o alla periferia di El Bireh) e a minacciare gli abitanti?
Ieri a Jenin i palestinesi si sono scontrati con i soldati israeliani nel raid dell’esercito più sanguinoso che la Cisgiordania occupata abbia visto dal 2005. Cronaca dei giornalisti di France Presse che hanno visto un militante mascherato giacere insanguinato sul marciapiede, mentre un altro prendeva il suo fucile e sparava verso le posizioni israeliane. Altri tre sono stati feriti, mentre l’AFP ha contato cinque corpi nell’obitorio del vicino ospedale. Il ministero della Sanità palestinese (ANP) ha detto che 14 persone sono state uccise nel raid, e la violenza è continuata fino a sera, nella singola incursione più mortale in Cisgiordania dal 2005, secondo i registri delle Nazioni Unite. Sempre giovedì altri quattro palestinesi sono stati uccisi nell’area, portando a oltre 180 il bilancio degli uccisi in Cisgiordania dal fuoco israeliano o negli attacchi dei coloni dall’inizio della guerra tra Israele e Hamas il 7 ottobre.
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